Dopo il festival
I calci di Blanco, i «casini» di Arisa, ma com’è bella l’imperfezione che questo Festival ci insegna
Quest’anno superiamo i commenti sul paradosso tra tradizione e innovazione, freschezza o esperienza e guardiamo alle dinamiche sociali e comportamentali dei concorrenti, con i riflessi sul pubblico
Al Festival di Sanremo, è l’imperfezione che incanta il pubblico. Blanco prende a calci i fiori, preso dalla incapacità di gestire le sue emozioni, Arisa commenta che hanno fatto un casino, al termine della canzone con Gianluca Grignani, Eros Ramazzotti non ricorda le parole, aiutato da un pronto alleato, Ultimo, in perfetta armonia intergenerazionale.
Quest’anno superiamo i commenti sul paradosso tra tradizione e innovazione, freschezza o esperienza e guardiamo alle dinamiche sociali e comportamentali dei concorrenti, con i riflessi sul pubblico.
Dopo anni in cui sui social media e giornali si rincorreva la perfezione di modelli stereotipati, impacchettati, competitivi in cui valeva il principio della vetrina, per dimostrare il proprio valore, la propria bellezza, cavalcando un’idea assurda di prestazione ad ogni costo e in ogni sfera della vita, oggi a Sanremo - temporaneo palco della società attuale, attraverso il quale è possibile vedere le reazioni della gente comune- possiamo affermare che l’era narcisistica del bello e perfetto è finalmente finita. Meglio imperfetto e autentico che perfetto e finto. Anzi alla gente piace l’imperfezione. Perché la perfezione non esiste e perché è più facile empatizzare con il fallimento che con il successo. Perché il successo degli altri genera confronti e giudizi su di sé (su un’idea spesso idealizzata di sé). A meno che non si comprenda che chi ce la fa si è aperto e ha accolto numerosi fallimenti da cui ha imparato ed è questa la radice del suo successo.
E di questo avevamo già conferma noi esperti formatori di public speaking, l’80% di ciò che piace al pubblico è emozionarsi e questo avviene solo se siamo autentici e se nella spontaneità sappiamo accogliere e sfruttare l’errore con semplicità, come piccola finestra su di noi, per lasciar intravedere chi c’è oltre la maschera, il ruolo, il personaggio che stiamo -spesso a nostra insaputa- interpretando, come diceva William Shakespeare «Tutto il mondo è un palcoscenico» (in As you like it, 1599-1600), illuminando l’essere, oltre i ruoli.
E su questo palcoscenico ognuno di noi, si gioca spesso la propria felicità e il proprio benessere. Questo principio di spontaneità, ci alleggerisce la vita e ci sta dicendo che possiamo lasciarci andare un po’ (la leggerezza non è superficialità) ed essere sereni di ciò che siamo e apprezzarci come siamo, perché nel desiderio di essere migliori, ciò che conta è riuscire ad aderire alla nostra più profonda essenza; lì dove nel profondo del nostro essere, possiamo sentirci bene, al sicuro, in confidenza con noi stessi, nel nucleo della nostra più profonda identità, che anche con alcune discontinuità e piccole incoerenze dovute ai condizionamenti (…), possiamo essere certi di manifestare noi stessi. Perché la verità (la fedeltà a noi stessi) ci rende felici e la finzione (l’adesione a modelli stereotipati richiesti) ci rende tristi. E questo è un principio «guida» nella nostra esistenza.
Chiediamoci, in che modo oggi possiamo manifestare noi stessi autenticamente nella nostra vita?