L'editoriale
Baby gang, la violenza frutto di una «gabbia» che blocca gli adolescenti
Già nel 1960 lo storico Philippe Ariès in “Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, ricordava che nel Medio Evo e per tutto l’ancien regime i bambini andavano a confondersi con gli adulti all’età di 8 anni circa
Le “baby gang”, la violenza giovanile, l’aggressività di ragazzi sempre più giovani verso coetanei e adulti, è sempre più in cronaca. Il dibattito sulle cause e sui rimedi è aperto e diversi sono i contributi tra le cui righe si legge la preoccupazione degli adulti per quanto sta accadendo e lo sforzo di comprendere chi è molto più distante di quanto il gap generazionale lascerebbe intendere.
Una riflessione sull’adolescenza, per comprenderla meglio, potrebbe aiutare.
Già nel 1960 lo storico Philippe Ariès in “Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, ricordava che nel Medio Evo e per tutto l’ancien regime i bambini andavano a confondersi con gli adulti all’età di 8 anni circa.Gli eserciti, fino al 1700, reclutavano adolescenti. Oggi certamente non ci piacerebbe.
La capacità d’amare, non solo di fare la guerra, era ritenuta conforme ai ragazzi: Romeo aveva 14 anni e Giulietta non li aveva ancora compiuti eppure, ancora oggi, la loro storia, resa immortale dal Bardo, è considerata il vero archetipo dell’amore.
Dal 1800 in poi, l’adolescenza cominciò ad avere un senso simile a quello che oggi le attribuiamo. Gli stabili sistemi sociali dell’epoca prevedevano il transito dall’infanzia all’età adulta attraverso riti di passaggio che definivano ruoli, attribuzioni e definizioni di genere.
L’istruzione elementare obbligatoria, introdotta da Federico II di Prussia nel 1768, affidò ai pubblici poteri la cura e l’educazione dei bambini e degli adolescenti privandoli, però, della libertà di cui prima godevano, della promiscuità con le altre generazioni, della possibilità di fare esperienze nella vita di tutti i giorni. La scuola somministrò un’educazione, più che altro un addestramento militaresco, che richiedeva rigore e disciplina attraverso metodi molto spesso duri e maltrattanti. Ma in collegio ci finivano i figli della borghesia mentre bambini e ragazzi delle classi povere vivevano una vita di stenti e quasi sempre da sfruttati.
Con il dilatarsi di questa fase intermedia, che dall’infanzia portava all’età adulta per accedere alla quale occorreva l’istruzione, la “civiltà” ebbe bisogno di assoggettare e controllare gli adolescenti privandoli, di fatto, della loro libertà e, con il passare del tempo sempre più, proponendo loro senza soluzione di continuità oggetti da consumare in una sorta di ipnosi di massa. Infatti, i giovani sono il primo oggetto di pubblicità, i primi consumatori di musica, di abbigliamento, di editoria, d’intrattenimento, di TV, di elettronica, di mezzi di comunicazione, di computer. Rappresentano un vasto mercato che più si assoggetta, ed in qualche maniera si mantiene nell’ignoranza, e più è redditizio. Una logica di mercato che induce al consumo che non tutti possono permettersi ed in questa chiave possono anche essere letti gli episodi di violenza consumata in gruppo ai danni di chi viene rapinato: mi prendo con la forza quello che non mi posso comprare.
Questa ipnotica abbondanza di beni offerta agli adolescenti comporta la perdita, l’esproprio, della soggettività che viene ridotta del suo potenziale non consentendo loro di evolvere nel quotidiano, cioè di tracciare una linea di demarcazione tra adolescenza ed età adulta essendo venuto a mancare il senso profondo di quei riti di iniziazione che, a volte, purtroppo vengono sostituiti da azioni di gruppo violente e, in non pochi casi, a sfondo sessuale. Un fenomeno sociale che, tra le altre cose, contribuisce alla demonizzazione culturale dell’adolescente e al distanziamento dal mondo adulto.
La differenza tra gli adolescenti di oggi e quelli del passato può riguardare la legge e, più in generale, le convenzioni sociali, ma si riduce, fino ad annullarsi, di fronte alla capacità di esprimersi negli affetti, nelle azioni, nella procreazione, nell’apprendimento e via discorrendo: gli adolescenti di oggi, dal punto di vista psicobiologico sono gli stessi di ieri. La variabile interveniente, e che fa la differenza, è quella culturale. I loro geni e la loro potenziale maturità non trova libera espressione trovandosi, gli adolescenti, in una segregante costrizione dove le esigenze e le potenzialità psicobiologiche, anche quelle geneticamente iscritte, le stesse dei loro coetanei di due o trecento anni fa, sono inibite se non represse.
L’adolescente, pertanto, è come se si trovasse in una gabbia esistenziale dalla quale disperatamente, e per reazione, tenta di uscire sempre più spesso attraverso atti violenti, eterodiretti ed autodiretti, oppure nella quale si rifugia alimentando un ritiro di natura depressiva. È noto, per esempio, il fenomeno sociale e psicopatologico degli hikikomori: adolescenti che si chiudono, letteralmente, nella loro camera ed interagiscono con il mondo soltanto attraverso la finestra della world wide web.
Ci troviamo di fronte ad una drammatica dicotomia tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione psicobiologica rimasta pressocché immutata che genera, pertanto, gli stessi esseri desideranti di qualche secolo fa. I ragazzi e le ragazze di oggi, quindi, devono conformarsi ad una realtà socio-culturale che non riconosce il loro specifico evolutivo trattandoli, a seconda delle convenienze, da bambini o da adulti in miniatura e di fatto trattenendoli in una condizione infantilizzante poiché più gestibile dal punto di vista dell’assoggettamento e più redditizia dal punto di vista dei consumi.
Stando così le cose il prodotto secondario è la condizione di prigionia di un essere biologico maturo che, tuttavia, non può essere autonomo e narrare, narrandosela, la propria soggettività; un essere che non trova altri esseri adulti disposti a riconoscere ed ascoltare la sua soggettività. Chi si occupa di adolescenti dovrebbe avviare un processo di reale avvicinamento, cercando di ricordare quanto più possibile la propria adolescenza.