Il caso

Violenze sugli indifesi: gli orrori di Foggia evocano i vecchi manicomi

Andrea Di Consoli

Se i manicomi sono ritornati sotto mentite spoglie, evidentemente c’è un problema taciuto, che va sviscerato il più rapidamente possibile

Le notizie che ci giungono di ora in ora sul “Don Uva” di Foggia lasciano tutti noi, com’è giusto che sia, in uno stato di dolore e di indignazione. Ma da soli il dolore e l’indignazione non bastano a mettere a fuoco quest’orrore, che non solo va capito, ma necessariamente arginato con laica fermezza.

La prima cosa da dire è che a leggere simili cronache viene da dire che in Italia sembrerebbero essere ritornati i vecchi manicomi. Non solo come luoghi di esclusione e di presunta “cura”, ma come spazi di umiliazione, di sopruso, di tortura e di violenza. La migliore psichiatria moderna è spesso anti-psichiatrica, ma se si è subdolamente reso necessario tornare alle vecchie forme della sorveglianza e della punizione, evidentemente c’è qualcosa di non detto a livello di sanità pubblica su come si possono gestire efficacemente i disagi psichiatrici gravi.

Se i manicomi sono ritornati sotto mentite spoglie, evidentemente c’è un problema taciuto, che va sviscerato il più rapidamente possibile.

La seconda questione riguarda i controlli e la qualità del personale che opera in queste strutture. Due sono le cose: o queste pratiche sono tollerate, oppure c’è stato un omesso controllo da parte di chi aveva e ha il dovere di verificare il rispetto e la correttezza dei protocolli utilizzati. Non basta perseguire penalmente chi si è reso responsabile di questi crimini, ma anche quanti avevano il dovere di controllare che tutto questo non avvenisse. Nessuna caccia alle streghe, per carità, ma qui stiamo parlando di un meccanismo ben strutturato di torture e violenze sessuali perpetrate nei confronti di donne inermi, ovvero incapaci di difendersi e di reagire.

Il terzo livello di lettura chiama in causa la qualità professionale e la formazione del personale chiamato a gestire quotidianamente disagi psichici gravi come la schizofrenia o le psicosi aggressive. Nessuno ha la bacchetta magica, ma per occuparsi di persone che vivono simili abissi della mente non basta essere infermieri o medici tra i tanti, ma bisogna avere una precisa vocazione e una profonda consapevolezza etica e medica. Mettere un qualsiasi infermiere a stretto contatto con questi abissi mentali porta inevitabilmente a vivere un disagio, un’esasperazione, una frustrazione. Tutti sentimenti che possono dar vita a reazioni mentali ed emotive imprevedibili. Insomma, nella trincea del disagio psichiatrico si devono mandare tiratori scelti – per usare una metafora militare – non impiegati in cerca di un posto fisso purchessia.

Quarta questione: le famiglie e la società civile. Avere in famiglia una persona con grave disagio e sofferenza mentale è un buco nero che richiede molta forza e molto spirito di sopportazione. Non è facile. Facile è solo parlarne quando non si vive il problema. Ma francamente la politica, la società civile e i media dovrebbero affrontare con maggiore onestà intellettuale e con maggiore sincerità il dramma del disagio psichiatrico, perché riguarda più persone di quanto si pensi. Illudersi di tornare a mettere la polvere sotto al tappeto come si faceva prima della Legge Basaglia non è possibile, perché sarebbe un grave arretramento civile e culturale. Ma bisogna parlarne con maggiore onestà e sincerità, senza provare vergogna, perché la vergogna, su questi temi, è l’anticamera della violenza.

C’è poi una questione che riguarda la psiche dei “professionisti” che si sono resi responsabili di questi orrori. Purtroppo non basta sottolineare il grave allentamento delle tensioni etiche e morali nel nostro tempo: parlarne è corretto, ma aprirebbe discussioni infinite, e probabilmente inconcludenti. Ma è evidente che chi prende a pugni un malato inerme o violenta una paziente con problemi psichiatrici a sua volta si ritiene libero di poter sfogare nella terra di nessuno di questi “nuovi manicomi” livelli molto alti, magari tenuti a freno “fuori dal lavoro”, di rabbia, violenza, e istinti di umiliazione e di sopraffazione.

La domanda è: è la cattività a cui porta lavorare in queste strutture “estreme” a condurre a simili comportamenti allucinanti e disumani, oppure inconsciamente chi nasconde violenza interiore inesplosa tende a lavorare in contesti di questo tipo?

Insomma, in queste ore drammatiche non basta indignarsi e invocare punizioni divine o pene esemplari. Bisogna andare a fondo nella problematica provando ad analizzare il più sinceramente possibile tutti i fattori in campo. Perché l’indignazione, da sola, non porta da nessuna parte.

Per esempio si potrebbe partire da una prima domanda, la più importante tra tutte: per caso in Italia sono ritornati i vecchi, orribili, umilianti, spaventosi manicomi che c’erano prima che entrasse in vigore la Legge Basaglia?

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