Fiction di successo
Altro che autonomia! La fantasia differenziata fa vincere il Sud
Il Sud conquista il pubblico televisivo grazie alle fiction in auge: Le indagini di Lolita Lobosco, La vita bugiarda degli adulti e The Bad Guy
Fantasia differenziata alla carica in quest’avvio del 2023. Mentre il Nord insegue l’autonomia cara al ministro leghista Calderoli (e non solo a lui), il Sud conquista il pubblico televisivo grazie alle fiction in auge: Le indagini di Lolita Lobosco, La vita bugiarda degli adulti e The Bad Guy. È la conferma di una tendenza in atto da tempo. Da Montalbano ai Bastardi di Pizzofalcone, da Gomorra a Imma Tataranni, dal Commissario Ricciardi all’Amica geniale, non v’è produzione di successo che non vibri di umori e luoghi meridionali. Il fenomeno si nutre della provenienza, della lingua letteraria e dei temi degli autori che scalano le classifiche in libreria, vincono i premi e spesso ispirano le fiction o i film: Camilleri, Ferrante, De Giovanni, Genisi, Venezia, Saviano, Carofiglio, Savatteri, De Cataldo, Carrisi, Lagioia, Auci, Desiati etc.
Insomma, lo stesso Sud redarguito o bollato come querulo se batte cassa e reclama diritti economici e sociali, piace a tutti quando sboccia nel recinto della fantasia: mare, sole, intrighi, crimini e, sometimes, un accenno di riscatto. Fanno testo gli oltre sei milioni di spettatori per l’esordio della seconda serie di Le indagini di Lolita Lobosco, regia di Luca Miniero dalle storie di Gabriella Genisi, con Luisa Ranieri in una Bari che più splendente non potrebbe (domani sera un nuovo episodio su Raiuno). In testa alla classifica delle serie su Netflix c’è La vita bugiarda degli adulti, dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, con la regia di Edoardo De Angelis e la produzione della Fandango di Domenico Procacci. E su Amazon Prime Video continuano a essere gettonate le prime sei puntate di The Bad Guy, regia dei materani Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana: un’incursione grottesca e paradossale nell’immaginario mafioso, di cui ha scritto un gran bene Attilio Bolzoni, fra i massimi esperti delle cose di Cosa nostra.
Bari, Napoli, la Sicilia... Non è un Sud indistinto né tutto coincide nelle capitali dell’immaginario televisivo. Non parliamo della verosimiglianza delle location che molti criticano sui social, dimenticando che il cinema non ha l’obbligo del realismo toponomastico. Sugli schermi una strada può finire nella piazza di un’altra città e il mare sorprenderti dopo un tornante della Murgia materana, come nell’ultimo film della saga 007, No Time To Die.
È interessante, piuttosto, buttare l’occhio alla geografia sentimentale, al paesaggio culturale e talora antropologico, al sostrato politico delle fiction. Così, The Bad Guy appassiona per l’estro di mescolare stili e stereotipi intorno alle vicende di un eroico magistrato che diventa suo malgrado un «uomo d’onore» alla macchia (Luigi Lo Cascio). La Sicilia - da Palermo al Trapanese - è «decostruita» e ricomposta in un mosaico di colori sgargianti e situazioni talmente assurde da apparire plausibili: il leggendario ponte sullo Stretto di Messina esiste, ma crolla!
Invece la Bari vecchia di Lolita è manierata e amabile come un rosè (il vero colore della serie, non giallo né tanto meno noir). Il racconto edulcora le contraddizioni nel folklore pugliese, ma non sfugge ai temi sociali sullo sfondo degli episodi delittuosi, a cominciare dall’ecologia. Luisa Ranieri è una vestale mediterranea formato famiglia: la sua ostinazione a rimanere single, solo da poco vinta, è una specie di fedeltà edipica al padre scomparso, in un contesto peraltro tutto matriarcale. Di scena c’è il genius loci della baresità sempre controversa, levantina e accogliente, pragmatica fino all’eccesso. Un’identità oggi incerta fra tradizione e visione, sottesa al rischio di restare ostaggio del perenne elogio delle orecchiette, con fattura o senza: un problema del capoluogo, che sarebbe ingiusto addossare al vicequestore Lobosco (non la fattura, no, diciamo l’ipoteca dell’orecchietta sul futuro).
Napoli, infine. La vita bugiarda degli adulti le restituisce una centralità nell’immaginario che, nonostante i film di Sorrentino e Martone, un po’ s’era persa dopo i fasti vesuviani anni Settanta-Novanta fra arte, letteratura e cinema. La Partenope della Ferrante - anche sceneggiatrice con De Angelis, Laura Paolucci e Francesco Piccolo - è doppia per definizione: quartieri alti e bassi, mito e storia, feste dell’Unità e suggestioni felliniane. Il canto della sirena accompagna il viaggio iniziatico verso l’età adulta della giovane protagonista Giovanna (Giordana Marengo), che coincide con la «discesa agli inferi» dal Vomero al degrado del Pianto, cioè di Poggioreale, dove vive la reietta zia Vittoria (Valeria Golino).
Il precoce mal di vivere della ragazza si esplica in uno scenario che non è più il «Mezzogiorno di fuoco» di tanti luoghi comuni, bensì un terreno accidentato e affascinante di frontiere dietro l’angolo, di scelte tanto cruciali quanto occasionali scandite dalla musica del caos orchestrata da Enzo Avitabile, con brani di Almamegretta, Peppino di Capri, 99 Posse, Rosa Balistreri, Edoardo Bennato, Raiz... La vita bugiarda degli adulti dà corpo alla post-modernità inquieta e cosmopolita del Sud, risalente ormai alla fine del ‘900, altro che l’arcaismo cui noi stessi a volte ci condanniamo. La finzione certe volte è un esercizio di realtà.