L'opinione

Maternità e carriera: non bastano le norme serve una rivoluzione

Valentina Petrini

Siamo al punto di dover gioire perché nella legge di Bilancio è spuntato un mese di congedo parentale facoltativo retribuito all’80% (e non al 30% come oggi)

Siamo al punto di dover gioire perché nella legge di Bilancio è spuntato un mese di congedo parentale facoltativo retribuito all’80% (e non al 30% come oggi). Da usare entro i sei anni di età dei nostri figli. Con un emendamento il governo ha messo una toppa alla gaffe iniziale: cioè riconoscere la modifica non solo per le madri ma anche per i papà. La versione finale del testo comunque ancora non c’è e al di là delle ipotesi e degli annunci vedremo nel dettaglio solo a legge di bilancio approvata, cosa prevede veramente questa riforma del congedo parentale facoltativo targata Meloni.

In Spagna i neopapà e le neomamme hanno diritto a 16 settimane di congedo con retribuzione al 100%: le prime sei settimane, cioè il primo mese e mezzo di vita del nascituro o del figlio adottato, da usare insieme (perché la condivisione delle responsabilità tra uomo e donna è un tassello importante verso l’affermazione della parità e la rimozione di stereotipi); le altre 10 settimane da gestire a discrezione dei genitori. A noi dunque non resta che accontentarci delle briciole. È l’Italia bellezza.

Sappiamo con certezza che le diseguaglianze sociali sono in costante aumento, e che ad essere colpite sono soprattutto le donne. I timidi interventi normativi e di welfare a nostro favore sono ancora troppo ancorati al modello tradizionale di famiglia in cui alla donna è affidata la cura, all’uomo il guadagno e la solidità professionale. Occupazione femminile, parità salariale, potenziamento dei servizi e riequilibrio delle responsabilità tra padri e madri, sono più che altro slogan da salotti e campagne elettorali. Prima o poi forse saranno anche conquiste di civiltà (speriamo più prima che poi).

Vorrei però soffermarmi su un altro corto circuito culturale che traspare dal dibattito su genitorialità, questione di genere e emergenza denatalità. Le statistiche denunciano il veloce è preoccupante invecchiamento della popolazione italiana. Invertire la rotta è una bandiera politica di molti partiti, compreso del governo Meloni. Gli studi mettono in relazione la denatalità con l’assenza di leggi a tutela della maternità. E infatti nei Paesi in cui si è intervenuto, i tassi di natalità sono tornati a crescere: come in Svezia, in Germania e in Spagna. Le ricette vincenti si conoscono: investimenti sui servizi per l’infanzia, lo smart working, contratti collettivi all’avanguardia, congedi a stipendio pieno, parità salariale. Spendere in direzione di queste riforme i soldi del PNRR è importantissimo per il futuro del nostro Paese e per il miglioramento della qualità della vita.

Ma non c’è solo l’urgenza di attuare riforme per favorire la conciliazione tra lavoro e maternità. II 20% delle donne intervistate nell’ultima indagine della Cisl Lombardia e BiblioLavoro ha dichiarato di aver rinunciato a fare figli per la carriera. Il 37,2% ha dovuto rinunciare a una promozione per assistere un familiare; per il 52,8% la gravidanza è stata un ostacolo ad accedere a ruoli apicali; il 60,8% ha ammesso che per affermarsi è necessario non avere impegni familiari.

Dunque non esiste solo il lavoro per vivere, ma anche la legittima aspirazione di fare «carriera», di vedersi riconosciuti merito e talento e conciliare questa aspirazione con la maternità. Se una donna quando nasce un figlio sente di voler modificare la sua disponibilità, prendersi del tempo, fermarsi, spesso vede andare in fumo le sue conquiste professionali, di colpo tutto ciò che ha dimostrato prima di diventare madre non vale più, non è abbastanza se non può continuare a mantenere i ritmi precedenti. Se invece delega la crescita e la cura del figlio ad una babysitter è comunque sbagliata, perché è una madre che «abbandona». Insomma in entrambi i casi siamo punibili.

C’è un rapporto malato non solo tra lavoro e maternità, anche tra carriera e genitorialitá. Non solo nei settori pubblici o nelle aziende private, un capitolo a parte meriterebbero tutte le libere professioni, anche il giornalismo. Una firma autorevole dell’informazione se diventa madre può concedersi lo smart working? Può ambire ugualmente a dirigere un gruppo di lavoro impostando l’organizzazione sui suoi tempi e non su modelli maschili? Le stesse domande valgono per tante altre professioniste: l’avvocata, la stilista, l’architetta, la designer.

La verità è che il successo, la carriera, i riconoscimenti arrivano se sei sempre disponibile, H24. Se non ti fermi mai, se sei disposta ad alzare costantemente l’asticella. Se ti getti nel fuoco e magari metti in conto o di non avere un figlio o di farlo crescere da qualcun altro. Leggi innovative, welfare paritario, sono dunque senz’altro necessari. Ma ci sono settori in cui le norme non bastano, non sono sufficienti. Serve una rivoluzione culturale. Proprio a partire da quegli ambienti che si dichiarano progressisti e che però - in fondo, in fondo - non lo sono per niente.

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