L'opinione
Dal Vajont a Ischia alla fine vince sempre la tv del pietismo
La chiave d’interpretazione era il pietismo catodico. Attirare l’attenzione sulle vittime, sulle devastazioni, sul sangue, sulla sofferenza e non sulle cause
Ischia travolta dalle frane, i telespettatori travolti dalla commozione dei notiziari. Ai tempi del Vietnam si parlava di follie dell’ora del te, le conferenze stampa pomeridiane con cui i vertici dell’esercito USA cercavano di ammannire la fiaba di un conflitto già perso che invece volgesse a favore degli americani. Walter Cronkite non ci cascava e si domandava sulla rete televisiva CBS: «Che diavolo sta succedendo? Credevo stessimo vincendo questa guerra».
La chiave d’interpretazione era il pietismo catodico. Attirare l’attenzione sulle vittime, sulle devastazioni, sul sangue, sulla sofferenza e non sulle cause, in quel caso sulla fallimentare teoria del domino elaborata a Washington, che mirava a non lasciar prevalere i russi su nessun territorio conteso, altrimenti gli altri sarebbero caduti uno ad uno come le mattonelle del popolare gioco.
Lo stesso vale per le catastrofi innaturali. Spostare il focus sul dolore, sui «dispersi», sulle vicissitudini strappalacrime di persone qualsiasi che, come nella predizione di Andy Warhol, diventano famose per quindici minuti. Si ripensi alla tragedia del Vajont. I procedimenti giudiziari accertarono che c’erano responsabilità criminali, sancite da condanne. Eppure all’epoca in televisione si mostrò solo l’orrore degli effetti sugli abitanti della zona.
Moltissimi anni dopo, Rigopiano. Un’apocalisse annunciata, paventata, inutilmente esorcizzata dall’assurdo senso di fiducia che spesso pervade lo spirito nazionale, l’egida dello stelloncino. Le inchieste della magistratura, non fanno spettacolo. Inquadrare i faldoni dai quali si evincono colpe da attribuire a imputati in carne e ossa non alle astratte «forze della natura»?
Si obietterà che c’è pur sempre il giornalismo investigativo di programmi dedicati proprio all’approfondimento di problemi emersi dal cicaleccio dei media. Però sembrano note esplicative che vengono comunque dopo gli eventi. Non di rado, inquinate da derive strumentali e ideologiche: usarle per colpire la parte avversa in politica. Il contrario dell’imparzialità da cui si distilla il vero. Laddove i nuovi vantaggi tecnologici consentirebbero di intervenire sul campo.
È la ripresa dal vero, adesso digitale, la morte in diretta, non più il cinema, come lo definì il critico francese André Bazin. Certo, sul grande schermo seguitano a sciorinarsi i cicli narrativi lungo i quali si consumano le esistenze di personaggi e interpreti. Ma sugli schermi personali di ognuno si assiste concretamente alla fine biologica di protagonisti e comparse della quotidianità. Specialmente nel caso di catastrofi, oggi catturate dalla miriade infinita di occhi digitali degli smartphone, che saltano a pie’ pari la redistribuzione delle immagini nei network e passano direttamente al dettaglio delle visioni private. Appare ormai una profezia superata dai fatti il romanzo di David G. Compton del 1974 L’occhio insonne, trasposto nel film La morte in diretta, del 1980, per la regia di Bertrand Tavernier. Lì s’immaginava una telecamera impiantata nell’occhio di una donna che filma tutto quanto. Nel presente, basta puntare un telefonino e acquisire e condividere eventi di qualsiasi tipo. Allora la cornice comunicativa istituzionalizzata della televisione resiste e sviluppa nel peggio la tendenza che stava già nei cinegiornali, soprattutto quelli di guerra. Il pietismo diventa la cifra dell’infotainment, l’informazione/intrattenimento, o meglio ancora dell’instant history, la storia istantanea, secondo l’espressione di Philip Howard su «The Times» del 15 marzo 1985.
Un esempio atroce della modalità televisiva che sostituisce all’analisi la mera narrazione si trova nel documentario di Marcel Ophuls A Sense of Loss (Senso di perdita), del 1972, sul dramma dell’Ulster. Uno speaker parla con lo sfondo di un quartiere in fiamme, a Belfast. Colpito da una bomba, salta in aria dinanzi alla telecamera che inanimata riprende la scena, anche se in realtà da questo lato dell’obiettivo c’è un collega del morto dilaniato.