L'editoriale

Fratelli d’Italia e 5 Stelle: così ha vinto la forza della «madre»

Oscar Iarussi

L’oscillante cultura politica del M5S, primo partito nel Mezzogiorno con punte del 40 per cento in Campania e soltanto terzo a livello nazionale (15 per cento), stavolta sarebbe stata nel solco prevalente del presunto assistenzialismo che per molti è sinonimo di meridionalismo

È fatta. Sono bastate poche ore, all’indomani delle elezioni di domenica scorsa, per diffondere una rinnovata lettura del Paese «diviso in due», una narrazione in verità vecchissima. Da una parte, ecco l’Italia dei ceti produttivi che al Centro e al Nord hanno scelto Fratelli d’Italia, e, qua e là, il Pd o il Terzo polo (per esempio nei quartieri bene di Milano), penalizzando la Lega di Salvini. Dall’altra, la «solita» Italia sfaticata e improduttiva del Sud accorsa a sventolare la bandiera del reddito di cittadinanza, cioè i terroni che hanno premiato i Cinque Stelle, o, meglio, ne hanno frenato il declino rispetto al consenso plebiscitario del 2018. Tutto a posto, dunque, tutto come sempre. E adesso dedichiamoci al toto-ministri...

È davvero così? Vediamo. Il Movimento capeggiato da Giuseppe Conte ha perso alla Camera circa 6 milioni e mezzo di schede rispetto alla precedente tornata elettorale, mentre centrodestra e centrosinistra hanno mantenuto più o meno i rispettivi consensi del 2018: oltre 12 milioni di voti gli uni e poco più di 7 milioni gli altri. Naturalmente Fratelli d’Italia fa la parte del leone nel centrodestra, passando da 1.400.000 a 7.300.000 voti, un balzo dal 4 al 26 per cento. Quasi 6 milioni di preferenze sottratte in gran parte agli alleati della Lega e di Forza Italia.

Insomma l’oscillante cultura politica del M5S, primo partito nel Mezzogiorno con punte del 40 per cento in Campania e soltanto terzo a livello nazionale (15 per cento), stavolta sarebbe stata nel solco prevalente del presunto assistenzialismo che per molti è sinonimo di meridionalismo. Già, ma anche la più tradizionale e radicata cultura della destra sociale di Giorgia Meloni è di natura comunitarista e nazionalista, antitetica al liberismo, terza rispetto al capitalismo e al socialismo. Una cultura che ben poco si confà al Nord delle partite Iva e delle imprese scalpitanti. Lo ha notato il politologo Paolo Feltrin: «Partito tradizionalmente a impianto meridionale, Fratelli d’Italia curiosamente prende più voti al Nord che al Sud. E la regione d’Italia dove va meglio è proprio il Veneto, sfondando il tetto del 30 per cento» («Avvenire», 26 settembre).

C’è quindi una matrice riconoscibile nella stragrande maggioranza degli elettori tutti: è la richiesta implicita di protezione, di soccorso, di aiuto, di sicurezza contro la crisi economica, contro le ansie della guerra, contro l’ombra ritenuta sinistra dell’Europa delle lobby e delle élite. Un bisogno di maternage, di affettuosità o cura materna che forse l’inedita leadership femminile di Giorgia Meloni, nonostante le sue pose da «dura», ha intercettato per vie insondabili come accade nella psicologia delle masse.

Ai tempi della Prima Repubblica, più di quarant’anni fa, una raffinata analisi sociologica - che ascoltammo nelle lezioni baresi del professor Eligio Resta - individuava nella Democrazia cristiana il partito-madre, capace appunto di coccolare, consolare, rassicurare gli elettori. Il Partito comunista italiano era invece il partito-padre, severo e giusto, volitivo e tenace nel perseguire il senso di responsabilità.

Mutatis mutandis, oggi la dimensione paterna in politica (e non solo) è in forte crisi o quasi estinta, forse con le eccezioni del presidente Sergio Mattarella e di Mario Draghi, che hanno piuttosto l’autorevolezza dei «nonni» (il premier uscente ci ha pure scherzato su). Così si è ampliata la presa della influenza «materna» sia al Sud sia al Nord. Quanto al Pd, erede della fusione fredda tra reduci democristiani e comunisti, ha scelto la via del «genitorialmente corretto»: è genitore 1 o genitore 2 a fasi alterne, oppure entrambi nel contempo. Senza dire che il Pd è da anni un consesso di fratelli coltelli, come stiamo vedendo anche nella diatriba post-elettorale ai danni del segretario Enrico Letta, di certo non l’unico responsabile della sconfitta. Rispetto alla crescente marginalità delle «classi subalterne» (Gramsci) e del ceto medio impoverito, il Pd si è impegnato nel gioco alchemico fra i clan di partito e nella ardua razionalità del governare. Ma noi sappiamo, con il filosofo Blaise Pascal, che anche in politica «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce»...

Un altro filosofo, il «nostro» Franco Cassano (deputato barese del Pd fino al 2018), aveva messo in guardia la sinistra in un libro cruciale, L’umiltà del male, edito da Laterza nel 2011. Scrive Cassano: «Perché le cose comincino a cambiare è necessario che il bene si giri verso l’imperfezione dell’uomo e smetta di guardarla dall’alto, abbandoni l’inerzia che discende dalla sua presunzione». In altre parole, sostiene l’autore, lasciare alla destra l’esclusiva della familiarità con le umane debolezze equivale a obbligarsi alla sconfitta del bene comune. Lungo questo crinale etico, Cassano prende le mosse da Dostoevskij: «Ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso».

La vita più della sua logica. Sembra il motto di una madre. Sembra la smentita del dualismo Nord-Sud che di eterno ha «solo» i luoghi comuni contro il Sud.

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