Il punto di vista

Bello lavorare tra cultura e scrittura, ma «non si mangia»

Pino Donghi

All’Università, prima di raggiungere una posizione «incardinata», e comunque con stipendi tutt’altro che principeschi, si è già prossimi alla pensione

Si definisce studente-lavoratore colui che, non potendo contare sul supporto della famiglia, o magari anche per scelta, mentre frequenta l’Università o un corso professionalizzante, si mantiene agli studi grazie a qualche lavoro – in gergo si dice «lavoretto» – per sua natura precario.

Ma l’endemico precariato di chi anela a lavorare nell’accademia, immaginandosi un giorno lontano «Professore Ordinario», nel frattempo provando a conquistare un primo, misero, assegno di ricerca e poi attendendo il bando da «ricercatore», che dovrà vincere, e dopo il quale attenderà ulteriori tre anni prima della conferma a tempo indeterminato, con uno stipendio mensile che può variare tra i 1200 e i 1700 euro, ha suggerito a Stefano Jacoviello, che insegna Semiotica della Cultura all’Università di Siena, il felice – si a per dire – neologismo di «docente lavoratore»: colui che si industria con vari ed eventuali lavori da professionista, anche altamente qualificato – e pure, ancora, qualche lavoretto - grazie ai quali mantenersi il lusso di poter insegnare in attesa, chissà, di poter diventare professore associato e poi, appunto, ordinario.

Per chi si è divertito – sempre per dire – seguendo la saga di Smetto quando voglio, nulla di nuovo, le gesta dei ricercatori-spacciatori raccontate nella serie di film diretti da Sydney Sibilia sono esilaranti, l’autodefinizione del Professor Jacoviello rappresenta già una buonissima ragione per seguire i suoi corsi: certo, però, c’è poco da ridere.

È tempo di programmi elettorali, di proclami, per qualcuno di promesse mirabolanti, è una stagione in cui ci si lanciano accuse, ci si rinfaccia l’un l’altro comportamenti e posizioni e dichiarazioni poco avvedute, impegni non onorati, previsioni sbugiardate dai fatti, insieme a grandi illusioni e a piccole meschinità. Anni fa, all’ex, forse di nuovo aspirante, Ministro Tremonti fu attribuita una battuta, «con la cultura non si mangia» da molti definita infelice. Direi che lo è. L’attribuzione è rimasta dubbia, in altro modo Giulio Tremonti l’ha rivendicata scrivendo un libro a quattro mani con Vittorio Sgarbi dal titolo Rinascimento seguito da un sottotitolo, Con la cultura (non) si mangia. L’attuale, ma con buona probabilità già ex, ministro per la Cultura Enrico Franceschini l’ha riproposta in forma interrogativa, in un libro intitolato Con la cultura non si mangia?. Tutti denunciano una grande opportunità non colta, un giacimento di possibili ricchezze che nessun Governo, nei fatti, ha provato a scavare come meriterebbe e si dovrebbe. Sicché al Governo ci sono stati.

La metafora del docente-lavoratore è spietata, appena la smorfia divertita che disegna sulle labbra si ricompone, in bocca rimane un amaro difficilissimo da mandare giù. Perché quale sia stata l’intenzione iniziale – se battuta infelice c’è mai stata – il significato di «con la cultura non si mangia» si conferma letterale. All’Università, prima di raggiungere una posizione «incardinata», e comunque con stipendi tutt’altro che principeschi, si è già prossimi alla pensione; chi il docente lo vuole fare nella scuola dell’obbligo, insegue una vocazione certo non gratificata economicamente; l’editoria offre, ai giovani che vi si avvicinano con entusiasmo, stage e collaborazioni che non pareggiano la «paghetta» elargita in famiglia, famiglia che, quando può, continua a sponsorizzare il desiderio di una carriera. Nella stragrande maggioranza dei casi è il mercato che impone questo tipo di ricompensa, qualche volta però, in cattivissima fede, vi è anche chi accompagna la mancetta con un ipocrita, «dovresti essere tu a pagarci, qui farai esperienza, avrai contatti, imparerai il mestiere»: una coppia di giovani amici giornalisti, anni fa, pubblicò su Youtube un’esilarante scenetta che li vedeva protagonisti mentre apparecchiavano la tavola e riempivano piatti e bicchieri di contatti, esperienza, mestiere...

Molti che lavorano «nella cultura» lo fanno al riparo di rendite garantite dalle famiglie d’origine, qualcuno dal coniuge che ha scelto una professione assai meglio remunerata, in ciò, oltretutto, distorcendo un mercato già stortissimo di suo.

C’è veramente qualcuno, oggi, tra coloro che ci chiedono il voto, disposto a considerare l’opportunità di investire risorse e progetti così che i soggetti pubblici e privati, a vario titolo coinvolti, possano pagare, non bene ma benissimo, chi si occupa di scuola, di formazione universitaria e di cultura? E ragionando anche su come valutarne l’operato, ché si tratta di professioni e compiti che necessitano una formazione attenta quanto permanente. Al momento mi darei una risposta sconsolata.

Certo però che la definizione «docente-lavoratore», più che ridere fa rabbia.

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