il commento

Cuneo fiscale e salario minimo, idee per il lavoro al tempo della politica in crisi

Roberto Voza

Non è solo l’estate a far procedere la campagna elettorale nella disattenzione generale per i contenuti

Non è solo l’estate a far procedere la campagna elettorale nella disattenzione generale per i contenuti. Da tempo la liquefazione dei contenitori (i partiti di massa) priva la discussione politica di luoghi e occasioni di confronto, sostituiti da comunicazioni che - per essere virali - si concentrano più sull’espressione che sul pensiero (parafrasando il giudizio di Croce sull’ultimo D’Annunzio). Non c’è bisogno, poi, di soffermarsi sugli effetti di una legge elettorale, che sembra fatta apposta per alimentare il sentimento dell’antipolitica, allontanando i rappresentanti dai rappresentati.

Del resto, la dissoluzione dei partiti è figlia della ideologia della fine delle ideologie, che descrive la politica come una pura tecnica fatta per risolvere problemi di natura oggettiva, al riparo da scelte di tipo ideale e valoriale. Invece, già l’individuazione dei problemi (prima ancora che delle soluzioni) ha natura intrinsecamente politica, perché esprime un punto di vista.
Pensando al tema del lavoro, è un problema (per i lavoratori, ma anche per l’intero sistema economico, se si pensa all’effetto sui consumi) il fatto che in Italia, negli ultimi 30 anni, le retribuzioni siano cresciute troppo poco. Alla ricerca di possibili rimedi, le proposte in campo non sono tutte uguali. Sembra piacere molto la riduzione del cuneo fiscale (ossia, il prelievo di tasse e contributi sulle retribuzioni). Vediamo negli effetti. Primo: se non è accompagnata da una corrispondente riduzione dell’evasione fiscale, essa contrae le risorse a disposizione per il welfare, il che svantaggia di più i meno abbienti. Secondo: se si taglia in percentuale fissa tutti i redditi da lavoro, si ottiene lo stesso effetto della flat tax: ne beneficiano maggiormente i redditi più alti. Terzo: anche se si rispetta la progressività, nel tempo bisogna mettere in conto gli scarsi benefici per il sistema nel suo complesso. Ha fatto bene Lino Patruno, su questo giornale, a ricordare che la riduzione del cuneo fiscale, quando è stata praticata, non ha impedito la crescita del lavoro povero e precario. Economisti attenti come Michele Capriati ci hanno spiegato che le politiche economiche volte a ridurre il costo del lavoro attraverso misure di fiscalità non sono volano di crescita, perché non affrontano la principale causa di debolezza del nostro sistema economico: la bassa capacità di innovazione.
Come ha scritto nei giorni scorsi Forges Davanzati, non vi è alcuna evidenza robusta che la riduzione del cuneo fiscale determini un aumento della domanda interna, né che stimoli le esportazioni. Innovazione, formazione, ricerca, infrastrutture e servizi: è lì che le nostre imprese andrebbero sostenute attraverso la spesa pubblica.

Nel frattempo, si intravede un’altra strada: il salario minimo legale. Ormai, la povertà salariale è penetrata anche nel lavoro subordinato standard (per non parlare dei lavori atipici). Per quanto fondamentale, la contrattazione collettiva non è bastata a fermarla. Con quasi mille contratti collettivi nazionali siamo di fronte ad un sistema sempre più disordinato, in cui le trasformazioni produttive fanno sfumare i confini tra settori merceologici, complicando ulteriormente l’individuazione del contratto collettivo applicabile. Alcuni sono siglati da organizzazioni di dubbia rappresentatività e fungono proprio ad alimentare la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro. In settori di profonda debolezza negoziale neppure i contratti sottoscritti dai sindacati più forti riescono a impedire la fissazione di retribuzioni esigue. I rischi di concorrenza al ribasso sono amplificati dalla frammentazione delle catene produttive, in cui lo shopping fra contratti collettivi può degenerare nel Far West salariale.

Una risposta formulata in varie proposte di legge identifica il salario minimo in quello stabilito dai contratti collettivi siglati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (pur con le difficoltà nel gestire questa formula), fissando - comunque - una soglia minima invalicabile. Questo paracadute legale non sottrarrebbe alla contrattazione collettiva la tradizionale funzione accrescitiva dei livelli retributivi (impedendo solo le spinte al ribasso) in aggiunta alla regolazione degli altri aspetti del rapporto di lavoro, che non si esauriscono nel salario. È solo un primo passo, ma va compiuto. Rispetto al fenomeno del lavoro malpagato, occorre poi sviluppare una visione più inclusiva, che guardi oltre i confini del lavoro subordinato, affrontando - con appropriati e diversificati strumenti - la crescente fragilità del lavoro autonomo e, persino, libero-professionale, amplificata dalle recenti emergenze.

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