Il punto di vista

L’odio, il sangue, i corpi nei sacchi: i simboli feroci e arcaici di un moderno potere criminale

Carmela Formicola

I fatti di mafia sono così, non saprai mai dove finisce la cronaca e dove comincia la leggenda metropolitana

I fatti di mafia sono così, non saprai mai dove finisce la cronaca e dove comincia la leggenda metropolitana. Davvero Vito Lanza aveva  come soprammobile nella camera da pranzo un osso del cadavere di Pinuccio Laviano? Ed è vero che a benedire la nascita della mafia foggiana fu Raffaele Cutolo durante un pranzo nel mega albergo ora in abbandono sulla statale 16? Il folklore nero alimentato tra  le alture del Gargano e le distese di grano è l’evidente conferma di una criminalità impermeabile. La percentuale di denunce, nel Foggiano, è la più bassa del Paese. Nessuno parla. Nessuno si pente. Pensare che dopo Antonio Niro il primo vero collaboratore di giustizia della Capitanata è quel Patrizio Villani che solo da pochi mesi ha cominciato a riempire  verbali.

Per il resto, l’aura della Società Foggiana e delle sue articolazioni rimane quella più nota, un po’ cruda e un po’ fantastica: sanguinaria, rozza, brutale, rurale. D’altronde, aver continuato a teorizzare fino almeno agli anni Duemila che si trattasse solo di pastori e agricoltori apertisi ai guadagni della droga, è convenuto a molti. Sotto la coperta della sottovalutazione si sono rifugiati anche imprenditori e amministratori. Anche quando il costruttore Giovanni Panunzio viene ucciso dopo aver denunciato le infiltrazioni mafiose nell’edilizia foggiana. Anche quando il direttore del Registro Francesco Marcone viene ucciso perché in quell’edilizia illecita ha iniziato a mettere il naso.

Quella mala arcaica è finalmente riconsegnata alla narrazione leggendaria. Ora sappiamo invece che i clan della Capitanata hanno portato innovazione e tecnologia nei loro affari. Il quartier generale di uno dei gruppi (quello indipendente dei cerignolani) è saldamente insediato nell'anonima provincia lombarda. E i grandi guadagni fatti con la droga vengono investiti nell’economia sana, non solo pugliese. «È la nuova Gomorra», la sintesi pop elaborata sul finire dell’ultimo ventennio.

 Il sangue, certo il sangue continua ad essere una delle cifre di questa mafia. Uccidere è normale. Gli ultimi morti sono padre e figlio, scoperti ieri mattina nelle campagne tra Cerignola e Manfredonia. Un proiettile alla testa  per ciascuno poi i corpi chiusi nei sacchi di plastica e nascosti nei campi.  Uccisi altrove, probabilmente, e trasportati laddove, prima o poi sarebbero stati ritrovati. Chi sono i due? Pesci piccoli, come si suol dire. Nessun morto eccellente, insomma, ma nelle numerose guerre combattute  da questi clan, molti «caduti» sono nomi sconosciuti. Perché la morte a certe latitudini non è solo una punizione o una vendetta o una reazione. La morte è dimostrativa. È didascalica. Serve a perpetuare la legge, a consolidare un potere, a ribadire le regole.  A maggior ragione se, dopo la negazione, è sopraggiunta la consapevolezza sociale e dello Stato. Aver potenziato i presidi repressivi ha innanzitutto riconsegnato dignità al territorio, riconoscendone l’emergenza e spezzando una certa solitudine. Ma il Foggiano è una terra aspra,  vastissima, multiforme. Il controllo è difficile e la paura continua ad annidarsi dietro le finestre chiuse. E questa mafia ha dentro un altro dirompente elemento genetico: l’odio. Guerra qui è sinonimo di faida. Una faida - questa sì ancestrale e arcaica - che assomiglia alla disamistade sarda: ci si stermina a prescindere dalla scintilla che scatenò l’odio. La droga non pagata, in questa saga di sangue, è solo un frammento di una storia che non ha fine.

Padre e figlio giustiziati, impacchettati nei bustoni di plastica e abbandonati in campagna. Ma gli investigatori, al momento, tendono ad escludere la pista mafiosa. Si vedrà. Indipendentemente dal movente, il linguaggio e le modalità del duplice omicidio, trasudano cultura (subcultura) mafiosa. Da sempre, da quando abbiamo iniziato a studiarli, i sodalizi criminali dispongono dei corpi dei propri nemici. Li sotterrano, li smembrano, gli danno fuoco, li fanno scomparire. Quel che toccò a Pinuccio Laviano, storico boss di Foggia, uno di quelli del (vero? leggendario?) pranzo con don Raffaele. Pinuccio più che un boss sembrava l’attore di un fotoromanzo, alla Franco Gasparri. I suoi antagonisti invece sapevano che era un uomo potente e feroce. E infatti lo fecero a pezzi e ne dispersero i resti (a parte il famoso osso nella camera da pranzo dell’assassino).

Privacy Policy Cookie Policy