Il punto di vista

Vince la partitocrazia sull’austero Draghi: ora elezioni a un passo

Michele De Feudis

L’esperienza dell’esecutivo dell’ex presidente della Bce termina dopo un crescendo di rallentamenti di percorso culminati con il non voto dei 5S sul Dl Aiuti

Si è consumato ieri sera l’ultimo atto del governo Draghi, con il voto sulla fiducia e l’ex maggioranza extra-large dilaniata e declinante in mille rivoli, spiazzata dalla scelta austera del premier di non accettare le faziose imposizioni dei partiti e la prospettiva di trasformare una compagine di ministri distintasi per pragmatismo in una fragile Armata Brancaleone da governicchio pre-elettorale.

L’esperienza dell’esecutivo dell’ex presidente della Bce termina dopo un crescendo di rallentamenti di percorso culminati con il non voto dei 5S sul Dl Aiuti. Il clima delle ultime settimane aveva già fatto maturare in Draghi la voglia di fare un passo indietro, e solo l’intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo aveva convinto a non unire l’aggettivo «irrevocabili» alle sue dimissioni. Il passaggio in Senato è stato anche il risultato di una mobilitazione del mondo produttivo e dei mille sindaci per invitare Super Mario a riprovarci, evitando una incertezza politica che - con gas alle stelle e l'irrefrenabile caro-bollette - crea le condizioni per la salita dello spread e inevitabili speculazioni finanziarie. 

Draghi, nel suo discorso a Palazzo Madama, ha chiesto ai partiti se «ci stavano» a sottoscrivere un nuovo patto, ma con un programma essenziale, senza mancette elettorali. La speranza era di trasmettere ai leader della «strana maggioranza» il desiderio di stabilità emerso dalle classi dirigenti del Paese, ma la ricucitura, dopo lo strappo di Giuseppe Conte e del M5S, non si è materializzata.

L’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, ha provato con una mozione stringata a riunire i cocci, ma il centrodestra di governo - irretito dalla rigidità delle comunicazioni di Draghi - ha scelto di proporne una propria, indicando una nuova strada senza i 5S. E così Draghi, che ha specificato di non aver mai chiesto «pieni poteri», ha costatato che la sua ipotesi di ripartenza non aveva il sostegno né di Lega e Fi, e né dei grillini. Da qui l'epilogo con le dimissioni.

Restano sullo sfondo i risultati incontrovertibili del governo dell’ex banchiere, che ha posto rimedio all'inadeguatezza del Conte 2 su pandemia e crisi economica, nonché brillando per una gestione del dossier Ucraina di stampo atlantista senza tentennamenti. E in tutti i contesti internazionali l'Italia ha goduto dell'indiscusso prestigio internazionale del presidente del Consiglio.

L’epilogo - tra intrighi parlamentari, incontri di prima mattina con Enrico Letta e in serata con i destri governisti, appuntamenti mai fissati con Conte, memorandum dal sapore populista e dal lessico casalinesco - è consono alla tradizione partitocratica italiana, filone al quale il “gesuita” Mario Draghi è estraneo e non riducibile per la sua formazione culturale e per il suo stile senza social e fronzoli. Del resto il premier dai gesuiti ha acquisito la capacità di leadership senza cadere negli eccessi del leaderismo: ha aspettato di essere chiamato dai partiti per un governo “eccezionale” e ha difeso l’unicità del suo itinerario tra pandemia, guerra e crisi economica.

Adesso la palla passa ai partiti al termine di una legislatura cadenzata da metamorfosi imprevedibili: in un elenco sterminato di piroette ricordiamo che Di Maio ha rinnegato il dogma dell’ «uno vale uno», la Lega è tornata «europeista», il Pd ha deposto ogni pregiudiziale ideologica per governare con i salviniani (e viceversa), Renzi ha dovuto mangiare la foglia di votare Draghi insieme agli odiati grillini.  Il centrodestra, infine, ha ritrovato in extremis una fragile unità di facciata, mentre nel centrosinistra appare un rebus la costruzione di una alleanza larga dai contiani ai centristi. 

Sarà il voto degli italiani a premiare o bocciare leader, partiti e visioni che mai come in questa legislatura sono diventati indistinguibili, confondendo ancora di più le idee ad un elettorato già tentato dall’astensione.

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