La riflessione

Gli intellettuali e la guerra: maschere in tragedia

Mario Ricciardi

Quell'accusa di tradimento è luogo comune del Novecento

L’accusa di tradimento, rivolta agli intellettuali, è un luogo comune del Novecento di cui fatichiamo a liberarci, forse anche perché questo nuovo secolo ci ha spiazzato così tante volte che non riusciamo a trovare modi nuovi per esprimere i nostri disaccordi. In mancanza di meglio, ritorniamo a figure familiari, spesso invocate anche a sproposito, che ci danno l’illusione di avere punti di riferimento. Per capire come mai il tradimento ha finito per essere associato agli intellettuali, può essere utile ricordare lo scrittore che ha per primo lanciato questa accusa: Julien Benda, autore de «La trahison des clercs», un libro pubblicato nel 1927.

Per Benda il tradimento dei «chierici» è ciò di cui si macchiano gli intellettuali che si fanno strumento delle passioni politiche – che conducono irrimediabilmente alla sopraffazione – voltando le spalle ai valori eterni della verità e della giustizia. Una concezione peculiare, che finisce per suggerire la conclusione che qualunque tipo di impegno è un tradimento. Come mai Benda arrivava a sostenere una tesi così estrema? Nel suo libro, lo scrittore ribaltava l’accusa che era stata rivolta ai difensori di Alfred Dreyfus dai nazionalisti e dagli antisemiti che avevano sostenuto la campagna contro l’ufficiale ebreo ingiustamente – come poi divenne evidente – accusato di aver fornito segreti militari ai Prussiani. Negli anni Venti, quando esce La trahison des clercs, diversi di quegli intellettuali, per esempio Barrés e Maurras, erano ancora attivi in Francia, e stavano alimentando un clima che Benda riconosceva come affine a quello che oltre le Alpi aveva prodotto il fascismo.

Per una generazione la cui coscienza politica, e anche il cui modo di stare nel mondo, era stata definita in larga misura dalla posizione presa sull’Affaire Dreyfus, quella di Benda era una mossa retorica brillante, che in effetti assicurò una straordinaria popolarità al libro, come testimoniano le recensioni che da subito ne segnalarono l’importanza, a partire da quella scritta da Benedetto Croce. C’era, tuttavia, un problema irrisolto nell’argomento di Benda. Come lo stesso Croce segnalava, e come buona parte dei lettori più acuti de «La trahison del clercs» (da Aron a Sartre fino a Michael Walzer) hanno sottolineato, il chierico di Benda si mette fuori dalla sfera pubblica, vive appartato, coltiva valori spirituali, e anche quando interviene, per esempio per difendere un uomo ingiustamente accusato come Dreyfus, dovrebbe farlo per fedeltà a un’idea piuttosto che per solidarietà con una vittima. C’è una sorta di ingenuo Platonismo implicito nella distinzione tra passioni politiche (cattive) e valori spirituali (buoni) che rende la posizione di Benda poco adatta a render conto del ruolo degli intellettuali in una società democratica.

D’altro canto, lo stesso Benda ha in un certo senso «tradito» la propria ingiunzione quando si è a sua volta impegnato, sia pure per un breve periodo, nella campagna degli intellettuali contro il fascismo ai tempi della guerra di Spagna. Valgono, su questo punto, le riflessioni fatte anni dopo da Eugenio Garin, il quale sosteneva che è tipico dell’intellettuale «volersi, anzi doversi fare maestro. L’attività dell’uomo di pensiero non può limitarsi alla riflessione solitaria. Nel momento stesso in cui affronta il problema morale, o s’interroga sul senso dell’esistenza, deve anche volere influire praticamente su quella che è la vita associata. L’impegno nel senso più largo possibile, che è cosa ben diversa dall’essere organici a qualcosa o a qualcuno, è un fatto intrinseco al mestiere di intellettuale».

Garin denuncia l’inconsistenza dell’ingenuo Platonismo di Benda, che peraltro non era certo quello di Platone (come ha messo in evidenza di recente lo storico delle idee statunitense Mark Lilla). Nella misura in cui l’intellettuale si interroga sul mondo, sulle cose e sugli eventi, egli non può fare a meno di sollevare anche il problema di ciò che è giusto fare. Non perché egli sia perso nella contemplazione di un ideale astratto di giustizia, ma perché è colpito, ferito in quanto essere umano, dalle ingiustizie concrete, e in larga misura evitabili, di cui è testimone.

Piuttosto che riesumare un consunto paradigma novecentesco, quello appunto del tradimento dei chierici, oggi dovremmo chiederci piuttosto perché gli intellettuali, persino al cospetto di una guerra sanguinosa nel cuore dell’Europa, non riescano a sottrarsi al ricatto di prese di posizione che assomigliano sempre più a uno schema da commedia dell’arte, dove ciascuno sceglie una maschera e poi ne interpreta, con qualche licenza, ma senza alcuna voglia di approfondirne i tratti, il carattere prestabilito: il pacifista, il realista, l’atlantista, l’anti-atlantista. L’epoca della malafede, come scriveva Nicola Chiaromonte, è fatta non solo di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre, ma anche di una drammatica mancanza di credenze genuine. Chiaromonte scriveva le sue riflessioni negli anni della guerra fredda. Ma esse sono ancora attuali di fronte alla nuova frattura che corre il rischio di dividere l’Europa e di precipitarne una parte sotto il dominio di un nuovo dittatore.

Privacy Policy Cookie Policy