L'opinione
I referendum e la voglia di riappropriarsi della politica dopo il caos Quirinale
Dopo la diffusione delle decisioni della Consulta, il presidente Amato - rompendo una consolidata prassi - ha voluto spiegare la mancata approvazione dei tre quesiti principali
La Corte costituzionale ha deciso sulle proposte di referendum all’indomani dell’ampio dibattito sulla «politica», esploso durante i giorni concitati del «conclave» quirinalizio. I supremi giudici si sono trovati a decidere in un clima sensibile, tenuto vivo anche dalle dichiarazioni rese alla vigilia dal neo-presidente della Consulta, Giuliano Amato: «Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile, il voto popolare». Un’affermazione in linea con le raccomandazioni che il presidente Sergio Mattarella aveva fatto davanti ai Grandi elettori nel giorno dell’insediamento bis e che accendeva la speranza dei Comitati promotori delle otto proposte referendarie.
Le cose sono poi andate diversamente e la Consulta non ha ammesso i tre quesiti più sentiti dalla gente e più forieri di cambiamenti nella vita quotidiana e cioè la modifica delle norme sull’omicidio del consenziente, che di fatto avrebbe legalizzato l’eutanasia; la liberalizzazione delle droghe leggere e l’introduzione della responsabilità civile per i magistrati. Ammessi invece gli altri cinque quesiti sulla giustizia che, peraltro, potrebbero alla fine non essere sottoposti al giudizio degli elettori se un qualche brandello di riforma riuscisse a neutralizzarli.
Dopo la diffusione delle decisioni della Consulta, il presidente Amato - rompendo una consolidata prassi - ha voluto spiegare la mancata approvazione dei tre referendum principali. Le motivazioni fornite sono valse alla Corte l’accusa di «agire politicamente». Il che equivale alla scoperta dell’acqua calda: è del tutto evidente che nel momento in cui i giudici costituzionali, pur facendo riferimento a parametri giuridici, bocciano o ammettono una proposta di consultazione popolare stanno facendo politica. Ogni volta che in una democrazia rappresentativa come è la nostra si decide di dare o negare la parola direttamente al popolo si compie un gesto politico. E non è un caso che i componenti della Corte costituzionale siano per un terzo espressione «dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative» e per i restanti due terzi scelti dalla politica.
La vera questione sollevata da Amato riguarda invece la cattiva qualità di scrittura dei quesiti: una presenza di dubbi interpretativi che ne hanno minato l’ammissibilità.
Lode al presidente Amato che ha svelato il re nudo. Sono almeno 20 anni che in Italia le leggi, e tutti gli atti connessi, sono scritti con i piedi, frutto di incompetenza, superficialità e approssimazione. Come esempio lampante valga la legge sul bonus edilizio che ha consentito a una congrega di malfattori di truffare allo Stato qualche pacco di miliardi (miliardi!) di euro.
Ma torniamo ai referendum, per i quali saremo chiamati alle urne in un periodo compreso fra il 15 aprile e il 15 giugno: deciderà il governo, che proporrà una data al presidente della Repubblica, al quale compete poi il decreto di indizione. C’è già chi chiede un accoppiamento con le amministrative che si terranno in maggio per il rinnovo di un migliaio di consigli comunali (in Puglia sono interessate 50 città fra cui Taranto, Barletta, Bitonto, Molfetta e Martina Franca; 23 centri in Basilicata di cui Policoro il più importante). La motivazione palese è il risparmio economico, quella reale è l’effetto trascinamento che le amministrative potrebbero avere per raggiungere il cosiddetto quorum: perché il referendum abrogativo sia valido è infatti necessario che vada alle urne almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto.
E qui si apre la questione di fondo: l’esercizio di un diritto altamente democratico e squisitamente politico interessa ancora gli italiani? L’ultima volta che si è raggiunto il quorum è stato 10 anni fa, su quattro quesiti: gestione servizi pubblici, acqua bene comune, stop nucleare, legittimo impedimento. Ma prima del 2011 c’erano state ben 6 tornate referendarie che erano andate a vuoto: bisogna risalire al millennio precedente (11 giugno 1995) per ritrovare una consultazione valida.
Al di là delle posizioni dei partiti, ogni pronostico è difficile, anche perché basato su parametri ormai inattuali: in 10 anni il mondo è cambiato e nessuno è in grado di prevedere come andranno le cose nell’era social. Il primo referendum abrogativo 2.0 sarà in realtà un referendum sulla politica. Se prevarranno il disinteresse e una sorta di diffusa frustrazione, allora resterà in mano ai partiti, alle loro conventicole e a un Parlamento che al prossimo rinnovo rischia di vivere una profonda crisi d’identità; viceversa, se gli italiani andranno alle urne come da tempo non fanno, allora vorrà dire che vogliono riappropriarsi di quel potere decisionale cui hanno progressivamente rinunciato.