Il caso

I dubbi su quell'Orfeo e le Sirene esposti al MarTa; l'esperto: «Documenti reticenti»

Pier Giovanni Guzzo, Accademico dei Lincei

«Quello che oggi manca è una campagna di analisi, complete e aggiornate, che restituisca al gruppo di «Orfeo» una sua precisa, oggettiva e documentata identità»

Il magico cantore tracio, quell’Orfeo che scese agli Inferi per tentare di riprendersi l’amata Euridice, non finisce di produrre meraviglie. Allora, riuscì ad intenerire la divina coppia infernale, Persefone e Ade: i due, commossi dalla dolce armonia che Orfeo sapeva trarre dal suo strumento, permisero a Euridice di prendere il cammino che riportava, dall’oscurità, alla luce.

Oggi, non è più questione di Inferi, di speranze, di permessi, di dolorose impazienze. Ora sono state esposte nel Museo Archeologico di Taranto le tre statue in terracotta, di dimensioni quasi naturali (almeno per il personaggio maschile seduto: delle Sirene non si conoscono le misure reali), che sono state restituite dal «Getty Museum». Lì erano finite, come molti altri oggetti di interesse archeologico, dal mercato antiquario: elegante definizione che indica il terminale dello scavo clandestino. Con le statue era stata anche venduta al «Getty» l’assegnazione di provenienza: Taranto, etichetta che si presta ad essere applicata a qualsiasi reperto antico che circoli nelle segrete, e tenebrose, stanze del commercio antiquario. Nel 1980 i Musei Statali di Berlino procedettero all’acquisto di un notevole gruppo di oreficerie di età ellenistica, in precedenza di proprietà privata. Il possessore, A. Moretti, ne dichiarava la provenienza avvenuta intorno al 1900 a Taranto.

La composizione del gruppo, abbastanza coerente, pone tuttavia problemi a proposito della dichiarata provenienza. Se le pietre dure impiegate nella bandoliera, di origine in Asia Minore, potrebbero essere state trasportate dal luogo di ritrovamento per essere poi lavorate a Taranto o in qualsiasi altro posto, almeno la forma della «reticella» appare essere del tutto eccezionale nell’ambiente tarantino di età ellenistica. Anche questo oggetto avrebbe potuto appartenere ad una signora originaria della Grecia Settentrionale, trasferitasi poi per varie vicende a Taranto. Queste, ed altre più tecniche, perplessità rendono preferibile circondare di virgolette l’asserita provenienza del gruppo di oreficerie a Berlino da «Taranto». L’esempio si crede dimostri a sufficienza quanto incerta e aperta a dubbi sia la carta d’identità di reperti archeologici dei quali non sia documentata la provenienza in quanto esito di scavi clandestini.

Ma, a parte la questione della reale provenienza (che, pure, non è di secondaria importanza), il gruppo pone problemi da punto di vista iconografico, e da quello della sua originaria collocazione. Sia la problematica iconografia (in quanto la forma della rappresentazione non permette completi confronti con altre opere di pari cronologia) sia l’altrettanto incerta originaria collocazione (se, cioè, il gruppo decorava un sepolcro, un edificio privato o pubblico, un tempio oppure un edificio politico) sono argomenti che possono essere superati da nuove scoperte oppure da approfondimenti più spinti delle attuali conoscenze. Così che non sembra che categorie del genere possano essere ritenute ultimative per decidere se il gruppo sia autentico, cioè plasmato in antico, oppure moderno (ma, anche se fosse moderno, quando sarebbe stato prodotto? Nell’Ottocento? Nel Novecento?). È recentissima la notizia, comunicata dal Direttore ad interim del Museo Archeologico di Taranto, relativa all’esito di analisi di termoluminescenza, esperite nel 1983 presso un laboratorio dell’Università di Oxford, che ha permesso di accertare l’antichità delle statue.

Le incertezze relative a tale documento sono state già messe in risalto dal prof. Francesco D’Andria. E, inoltre, manca nella documentazione prodotta l’esito delle analisi compiute, nel 2004, in un laboratorio del Connecticut, delle quali, fin qui, si ignorava l’esistenza. Fabio Isman, inoltre, noto giornalista che ha rivolto penetranti attenzioni e scritti al fenomeno del mercato antiquario, presume ci siano «documenti», che dovrebbero essere in possesso del Nucleo dei Carabinieri: senza i quali, a suo dire, sarebbe stato impossibile che un giudice di Los Angeles avesse proceduto al sequestro del gruppo per rispedirlo in Italia.

Purtroppo, sappiamo come anche i documenti possano essere falsificati. Quello che oggi manca è una campagna di analisi, complete e aggiornate, che restituisca al gruppo di «Orfeo» (ma, forse, è rappresentato un mortale che si dilettava di suonare la cetra, se il gruppo proviene da un monumento funerario) una sua precisa, oggettiva e documentata identità. La reticenza, almeno finora, mostrata dalle autorità dei Beni Culturali a precisare sia le proprie iniziative al proposito sia quale programma scientifico dovrebbe essere realizzato dalle analisi stesse non pare positiva. Qui non è certo questione di fare il tifo sull’autenticità o meno del gruppo: quello che interessa ad ogni studioso che sia degno di così qualificarsi è di poter disporre di certezze documentate. E queste ultime, in questo ormai terzo millennio, provengono anche da analisi scientifiche, condotte con metodo, controllate da un team di esperti in varie discipline, da quelle fisiche a quelle umanistiche e storiche.

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