La testimonianza
«Io, testimone delle foibe: cacciati dalla nostra terra», oggi è il Giorno del Ricordo
Nel Giorno del Ricordo lo scrittore Diego Zandel racconta la tragica odissea dei connazionali vittime degli jugoslavi
Sgombriamo il campo dagli equivoci. Ma credo sia significativo introdurre la mia testimonianza sul Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, ancora troppe volte criticato, dal momento della sua istituzione nel 2004, quasi fosse una celebrazione di parte e non, quale è, una pagina di storia nazionale: sfugge a molti polemisti e commentatori che la cessione alla ex Jugoslavia di gran parte della regione Venezia Giulia è stato il tributo che l’Italia ha dovuto pagare per una guerra persa da tutti gli italiani, visto che le nostre forze armate erano composte da militari provenienti dalle più disparate regioni, dalla Sicilia al Piemonte. Così come gli istriani, fiumani e dalmati, vivendo sulla linea di confine, sono state le prime e uniche vittime sacrificali delle azioni compiute dall’esercito italiano in Slovenia e nei territori dell’ex Regno di Jugoslavia, esercito comandato da generali come il modenese Roatta e il romano Pirzio Biroli. Per vendicarsi, gli uomini di Tito non sono venuti fino a Bari o a Napoli o a Firenze, a Roma o a Milano o Torino. No, si sono fermati a Fiume e a Trieste e hanno fatto strame non solo dei nemici, ma anche di tutti coloro, partigiani e antifascisti innanzi tutto, che si opponevano all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. E tutto ciò anche con la complicità del Partito Comunista Italiano, ben testimoniata dalla lettera di Togliatti al Presidente del Consiglio d’allora Ivanoe Bonomi, in cui il segretario comunista stigmatizzava l’ipotesi che «le nostre unità partigiane prendano sotto controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell’esercito partigiano jugoslavo (…) Tutti sanno, infatti» continua Togliatti «che nella Venezia Giulia operano oggi le unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti».
Il che, palesemente, non fu. Emblematica, in questo senso, la strage del 7 febbraio 1945, quando una formazione di gappisti comunisti italiani uccisero, presso le malghe di Porzüs, 21 partigiani della Divisione Osoppo, di tendenza azionista e cattolica. Gli eventi successivi, ovvero l’effettiva annessione ad essa di gran parte della Venezia Giulia in seguito al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, avrebbero travolto quel mondo abitato da persone appartenenti a etnie diverse, italiani, croati e sloveni, abituate da secoli a convivere in pace insieme, realtà testimoniate dall’ampia presenza sul territorio di famiglie miste: io stesso sono di famiglia italo-croata. Un equilibrio - anche questo non va assolutamente dimenticato - la cui rottura va imputata inizialmente al fascismo e alle sue leggi liberticide, come la chiusura delle scuole di lingua croata e slovena, il divieto di parlare croato o sloveno nei luoghi pubblici, l’italianizzazione forzata dei cognomi. Una rottura che il regime di Tito, poi, seppur all’insegna di facciata dello slogan «Fratellanza e unità», ha perpetuato con il determinato intento di ridurre, fino a sfiorare la pulizia etnica, la presenza italiana in Istria e a Fiume, così da costringere la stragrande maggioranza della stessa a lasciare la propria terra, la propria casa, il proprio lavoro, la famiglia, le tombe dei propri cari.
E quella gente che se n’è andata, 300 mila persone, raggiunta l’Italia, da cui si erano rifiutate di staccarsi, hanno dovuto subire l’onta della propaganda: da una parte di coloro, all’estrema sinistra, che li definiva fascisti, dall’altra, all’estrema destra, che strumentalizzava, in chiave anticomunista, la loro tragedia, così avvalorando ingiustamente il profilo politico di un popolo che, nella realtà, non era dissimile al resto d’Italia. E che ad essa, a questo Paese, anzi, ha dato qualcosa di più, soprattutto i tanti, tantissimi, che nonostante abbiano combattuto per liberare la loro terra dal nazifascismo, sono stati costretti a lasciare quella stessa terra. Tra questi anche i miei genitori. Nel luglio del 1947, novello sposo, fuggiva con mia madre da Fiume. Sarebbero stati destinati al campo profughi di Servigliano, nelle Marche, già campo di concentramento, dove vide la luce il loro unico figlio, la cui prima culla fu una cassetta di arance.