L'intervista
Simonetta Gola: «Le armi a Kiev? Gino avrebbe detto di no»
Il libro postumo di Strada. Domani alla Feltrinelli di Bari la presentazione di «Una persona alla volta» del fondatore di Emergency
Non è un’autobiografia, ma piuttosto un passaggio di testimone, affidato agli occhi «di chi vuole leggere» ma anche e soprattutto alle mani dei giovani, i custodi del mondo che verrà. Simonetta Gola, giornalista e moglie di Gino Strada, definisce così il volume Una persona alla volta (Feltrinelli, 2022), opera postuma del fondatore di Emergency scomparso nell’agosto 2021, meno di un anno fa. La Gola, curatrice del volume nonché responsabile della comunicazione di Emergency, lo presenterà domani alla Feltrinelli di Bari (ore 18) dialogando con il direttore della «Gazzetta» Oscar Iarussi.
Simonetta Gola, qual è il messaggio che il libro veicola?
«Sono due in realtà. Il primo è immediato: la guerra non si fa, non si deve fare, perché ci vanno sempre di mezzo gli innocenti. Il secondo è che la salute rimane un diritto fondamentale».
Qualcuno direbbe che siamo al festival dell’utopia.
«Ecco, questo ci porta ad un’altra lezione fondamentale di Gino, forse la più importante: le cose possono cambiare, partendo spesso da scelte personali. La situazione non è mai immutabile se ci si impegna».
Il primo incontro di Strada con la guerra è attraverso un racconto del padre: gli americani nel ‘44 sbagliano bersaglio e centrano, tra le altre cose, una scuola a Gorla (Milano), uccidendo 184 bambini su un totale di 600 vittime. Colpisce perché gli americani sarebbero i «buoni»...
«È esattamente il motivo per cui la guerra non deve essere fatta. Accentando quella scelta si accetta di uccidere delle persone, per volontà o per errore umano. È successo agli americani ma anche agli inglesi a Copenaghen come racconta il recente film Un’ombra negli occhi: pure in quel caso fu colpita una scuola».
È stata la seconda Guerra mondiale a cambiare tutto?
«Per la prima volta si è teorizzato e praticato il bombardamento aereo. Il dominio dei cieli per annientare il morale dell’avversario. Vale l’esempio di Dresda rasa al suolo dagli Alleati senza che ci fossero obiettivi militari sensibili. È l’inizio di un percorso che elegge i civili a prime vittime. Oggi, regolarmente, il 90% dei morti sono civili».
È la ferocia della guerra moderna che Strada conobbe in Afghanistan. È quello il passaggio decisivo?
«È la prima che ha vissuto nonché quella che lo ha impegnato più a lungo. Una guerra infinita di vent’anni che ha ulteriormente certificato l’inutilità dei conflitti. Due giorni fa c’è stato un attentato al mercato del cambio di Kabul. Solo nel nostro ospedale sono arrivati 50 feriti».
A quel punto, si legge nel volume, ha smesso di indagare le cause dei conflitti.
«La ricerca dei motivi lo ha appassionato per poco, poi è rimasto l’essenziale: la ferocia della guerra nuda e cruda».
Da queste tensioni interiori nel 1994 nasce Emergency. Cosa vi distingue da altre realtà simili?
«Il fatto che sia nata da un gruppo molto eterogeneo di persone ma soprattutto la presenza di due scopi: l’intervento diretto e la promozione di una cultura di pace».
Siete impegnati in Ucraina?
«Sì, siamo in Moldavia dove abbiamo un ambulatorio mobile per i profughi in fuga».
Strada si sarebbe opposto all’invio di armi a Kiev?
«Non voglio attribuire a Gino parole che non ha detto ma, conoscendo le sue posizioni, sì, sarebbe stato contrario».
Scontata la replica: con le armi si aiuta la resistenza ucraina.
«L’invio di armi non ha mai portato da nessuna parte, ma solo prolungato il conflitto. Continua a morire gente e si divaricano ulteriormente le posizioni. E poi una volta inviate le armi non le controlli più. C’è un precedente illustre».
Ancora l’Afghanistan?
«Prima dell’11 settembre 2001 sono state inviate molte armi ai talebani. Oggi, nella guerra in corso, si rischia di armare ulteriormente i gruppi militari nazisti impegnati nel conflitto sul fronte ucraino, a cominciare dal Battaglione Azov. Sono armi che resteranno in loro possesso anche a guerra finita».
Il conflitto ucraino ha comunque stimolato un certo dibattito sulla pace.
«Lei dice? A me sembra che dei pacifisti non si parli o al massimo li si dipinga come anime belle».
Il Papa, in qualche misura, ha portato il tema all’attenzione generale.
«Anche lui è stato spesso relegato nelle ultime pagine dei giornali. Trovo il dibattito molto impoverito».
Come mai secondo lei?
«Penso ci sia di base una minor visibilità dei pacifisti rispetto, ad esempio, al 2003, l’anno della guerra in Iraq. Allora scesero in piazza milioni di persone al punto che il “New York Times” parlò di opinione pubblica come terza potenza mondiale».
La mobilitazione non servì a nulla.
«E questo credo abbia indotto una certa sfiducia nel movimento pacifista. Poi, quelli erano gli anni del forum sociale di Firenze, questi gli anni della grande astensione».
Strada era un pacifista?
«No, non si definiva così»
Perché?
«Fu decisivo ciò che vide nel 2001 quando tanti parlamentari che si definivano pacifisti poi votarono la partecipazione dell’Italia all’aggressione all’Afghanistan. Il classico “sono pacifista ma...”. Meglio dirsi contrari a ogni genere di guerra».
Il messaggio è chiaro. Ma poi, ed è l’obiezione che viene mossa a chi fa proprie posizioni come quelle di Strada, il conflitto come si risolve?
«Percorrendo la via negoziale che, nel caso ucraino, è stata archiviata subito. L’Italia si è convinta a inviare armi a quattro giorni dall’inizio della guerra. La Germania ancora prima. Ma non c’è mai stato un intervento europeo per fermare la guerra. E oggi, dopo tutto quello che è successo, battere la via dei negoziati è ancora più difficile».
Chiudiamo su un altro capitolo che tocca il nostro Sud. Qui il nemico sono le disuguaglianze?
«Senza dubbio. Abbiamo penalizzato la salute pubblica con un sistema combinato di sanità pubblica e privata che ha portato al taglio di medici e infermieri. La media nazionale di posti letto è di 3,7 ogni mille abitanti. In Calabria è 1,7. E questi sono solo numeri».
Strada fu individuato come possibile commissario proprio per la Calabria in piena emergenza pandemica ma non se ne fece nulla. Un episodio rivelatore? Qualcuno vuole che le cose restino così?
«Me lo sono chiesta anch’io. Come è possibile che nello stesso Paese esistano livelli di assistenza così diversa? È una domanda che resta senza risposta».