Il racconto

Nel padiglione della speranza

Delio De Martino

Delio De Martino e i corsi e ricorsi della Fiera del Levante: dal 1930 ai vaccini

«La S.V. è pregata di presentarsi presso l’ingresso monumentale della Fiera del Levante di Bari per effettuare il vaccino anti-Covid 19 il primo maggio alle ore 8.00». Il pdf della prenotazione era appena stato stampato ma per qualche errore una chiazza di inchiostro nero aveva tagliato il foglio in due. “Poco male servirà soltanto come carta da mostrare all’’ingresso” pensò. Lo poggiò a fianco del computer in attesa che il giorno arrivasse.
Il tempo che lo separava dall’iniezione scorse lento, accompagnato dai consueti bollettini di contagiati e morti che scandivano le giornate scolorite di vita con la precisione delle campane medievali.


Quando finalmente arrivò il giorno giusto Alessandro si avviò per tempo. Salì a bordo dell’auto alle prime luci del mattino quando l’aria di maggio prometteva finalmente di cacciare nel passato il freddo dell’inverno. Per arrivare da casa sua al centro vaccinale percorse tutto lo stradone del lungomare. Dietro la brina del primo mattino ancora incollata ai cristalli scorreva sulla destra la lastra del mare, sulla sinistra troneggiavano le mura della città vecchia, l’unico quartiere che davvero aveva superato tutte le epidemie della storia. Proseguì verso il porto, seguendo la direzione indicata dal faro e poi finalmente si ritrovò al quartiere della Fiera.

Parcheggiò sullo spiazzo proprio di fronte all’ingresso, chiuse l’auto e alzò lo sguardo dando le spalle al mare. Mussolini aveva disegnato quella porta rivolta ad oriente per dare l’impressione di tutta l’imponenza del suo impero. Quale luogo migliore per vaccinarsi contro un virus venuto proprio dall’oriente più oriente che esista? Da porta di una fiera ormai smorta era diventato il cuore della lotta verso il male di tutta l’Europa. Per la prima volta quell’arco, disegnato nel 1929 da Augusto Corradini e tanto trascurato per decenni, promanava fierezza ben diversa dalla boria di quando Mussolini aveva deciso di disegnare la città a forma di aquila con le ali spiegate verso l’oriente e la folla in festa si convinceva che la città fosse diventata solo per questo il cuore del mondo, la regina di tutti i paesi oltre il mare.


Era il 6 settembre 1930 quando l’Italia festeggiava la nascita della Fiera del Levante. Dopo più di novant’anni l’arco, i torrioni, le bifore, le trifore, i bassorilievi insieme alle colonne e tutte le decorazioni orientaleggianti sembravano finalmente festosi per aver cancellato la tristezza dei monumenti dimenticati. Quelle torri guardate da anni con sufficienza come scarti di un passato da dimenticare sembravano davvero alte e regali come non lo erano mai state. Tutta la maestosità delle due torri sopravvissute alla caduta dell’impero per la prima volta aveva davvero riacquistato il ruolo che la storia le aveva tolto. Le torri merlate con i loro ricchissimi decori adesso cercavano di spaventare il virus che terrorizzava tutto il mondo.
Alessandro aprì il borsello e prese il foglio della prenotazione. Da che parte andare? All’ingresso un gruppo di persone si affollava ignorando ogni distanza di sicurezza. Poi all’improvviso un nitrito altissimo spaccò il gruppo. Un vocio si alzò e arrivò fino alle orecchie. «Spostatevi», «Lasciate passare», «Andate indietro», «Fate attenzione, non vi ammassate», «Il cancello si sta aprendo».

Il gruppo si aprì e la criniera di un cavallo bianchissimo bardato come nelle feste patronali si affacciò verso l’uscita. Lo accompagnava un altro nerissimo con il crine lucido come la seta su cui si specchiavano i raggi del primo sole. Con un pennacchio elegantissimo in testa trascinavano qualcosa. Quando superarono il gruppo, finalmente capì di cosa si trattasse. Una carrozza con una teca tutta di cristallo tra sottili colonne nere sfilava con la tristezza di una processione d’altri tempi.
Sulla carrozza un’altissima croce lavoratissima, come i bordi dei centrini che la nonna disseminava per casa, risplendeva proprio sotto l’arco di trionfo.


Poi un suono lo distrasse, un rumore che aveva sentito soltanto nei film degli anni ’50 che sua madre guardava e riguardava ogni pomeriggio. Una sirena come quelle che squarciavano l’aria durante la guerra. Temette che il cielo cadesse sulla terra, sotto il boato delle bombe, come quelle che avevano distrutto i palazzi più belli della città. Il suonò si interruppe e la carrozza riprese a muoversi lentamente.

I cavalli, superato l’arco, girarono verso la strada. Alessandro, nonostante la paura dell’infezione, decise che avrebbe guardato all’interno. Si strinse la mascherina e si affrettò ad attraversare la strada per riuscire a gettare uno sguardo lì dentro. Un’orrida visione lo fece pentire della sua curiosità. Sotto un telo bianco trapelavano gli occhi rossissimi di sangue tra le lame della proteina Spike. Il virus con gli occhi chiusi agonizzava con bava alla bocca, tremando come non aveva mai fatto. L’enorme sfera ansimava ancora di tutti i respiri rubati. Un ultimo sguardo prima di chiudere gli occhi e gli sembrò di vedere un ultimo sbuffo di vita.
Poi un colpo di frusta e i cavalli presero a galoppare sparendo dietro l’ultima ansa.

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