La storia

Giornata dell'infermiere, da Fasano in Emilia: «Stare accanto ai malati è quasi una vocazione»

Alessandra Flavetta

Patrizia Bruno (di Fasano) volontaria in Emilia Romagna per aiutare i malati di Covid 19

FASANO - Per molti degli oltre 451mila infermieri iscritti all’Albo della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche, il 77% donne, è più di un lavoro: «Se non proprio una vocazione, poco ci manca, a me è stata la passione a guidarmi, è un mestiere per cui non basta la preparazione, ci vuole l’istinto di cura, bisogna essere portati verso l’altro», racconta nella Giornata Internazionale dell’Infermiere Patrizia Bruno, 49 anni, nata a Fasano e residente a Bari, impiegata all’Ospedale «Di Venere». La stessa passione che l’ha spinta, istintivamente, ad andare in Emilia Romagna con la Protezione Civile, durante l’emergenza Covid, passando dalla sala operatoria al reparto di Rianimazione di Piacenza, lasciando a casa una figlia di 13 anni, grande supporter della sua scelta, nonostante il marito continuasse a lavorare.
«Sono partita per dare qualcosa, una goccia d’acqua nel mare, e sono tornata dopo tre settimane – spiega Patrizia – avendo ricevuto più di quanto ho dato. Un’esperienza che mi ha cambiata per sempre, anche se avevo tanta paura di portare il virus a casa».

Lei, che ha 25 anni di servizio alle spalle, può dire che «la professione è cambiata, negli anni, anche in termini di riconoscimenti», in meglio, dopo che le Scienze infermieristiche sono diventate un corso di laurea, e non più solo un corso triennale, quello che scelse dopo il Liceo Scientifico e che la portò, già sposata, a lavorare per cinque anni all’Asl di Melegnano (Milano), prima di vincere un nuovo concorso che l’avrebbe riportata in Puglia.
«È vero che i tagli alla Sanità ci sono stati, negli anni, e che eravamo impreparati alla pandemia, ma ho anche visto – assicura Patrizia – che quando c’è la Sanità pubblica, quando lo Stato vuole essere presente, può creare una macchina organizzativa ed umana perfetta, e che non abbiamo nulla da invidiare agli altri Stati». All’Ospedale maggiore di Piacenza, Patrizia ha conosciuto Giuseppe Lacorte, 47 anni, altro volontario pugliese che lavora al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile di Ostuni, sua città natale. «Il Piacentino – rileva – ha pagato il prezzo più alto di perdite rispetto alla popolazione, ma anche due medici volontari sono risultati positivi, gli ultimi tre giorni, così una volta tornato a casa, anche se avevo fatto il tampone sono rimasto in quarantena nella mia stanza, senza poter stare con mia moglie e i miei due figli, e mi sono perso anche i 18 anni del più piccolo».

Anche Giuseppe ha vissuto per lavoro 10 anni in Lombardia, poi 4 anni in Abruzzo, qualche anno a Taranto e, ad Ostuni, è riuscito ad arrivare solo nel 2007: «Una trafila che hanno vissuto molti colleghi del Sud e pugliesi, perché da noi – ricorda – non c’erano concorsi ed andavamo al Nord a prenderci il posto: ho ricambiato l’accoglienza, quando c’è stato bisogno. Nella mia scuola per diventare infermiere, nell’88, io ero l’unico maschio su 40 corsisti. Allora eravamo molto dipendenti dalla classe medica, oggi ci siamo ritagliati in nostro pezzo di autonomia, le nostre mansioni. Alla luce di questa brutta esperienza che abbiamo vissuto – avverte da buon sindacalista della Cisl Funzione Pubblica – bisognerà ripensare anche le dotazioni organiche del personale sanitario: a breve, con il numero chiuso all’Università, ci saranno non solo pochi medici, ma anche pochi infermieri».

Privacy Policy Cookie Policy