Il caso

Bracciante tarantina uccisa dal caldo, la Procura al contrattacco: impugnata assoluzione del datore di lavoro

Francesco Casula

La morte di Paola Clemente in un vigneto di Andria il 13 luglio 2015, fu «la conseguenza di una cascata di eventi, l'ultimo dei quali consistito nella mancanza di una idonea "catena della sopravvivenza"»

La morte di Paola Clemente, la 49enne tarantina bracciante agricola, morta in un vigneto di Andria il 13 luglio 2015, fu «la conseguenza di una cascata di eventi, l'ultimo dei quali consistito nella mancanza di una idonea "catena della sopravvivenza"».

È quanto scrive il pubblico ministero di Trani, Roberta Moramarco, nel ricorso contro l’assoluzione di Luigi Terrone, datore di lavoro della 49enne finito alla sbarra con l’accusa di omicidio colposo e assolto, il 15 aprile scorso, dal giudice Sara Pedone.

Dopo il deposito delle motivazioni della sentenza, il pm Moramarco, ha presentato appello sostenendo che l’uomo deve essere condannato: nel suo ricorso l’inquirente ha scritto che il giudice «ha deciso di assolvere l'imputato per il delitto a lui ascritto» perché ritenuta «carente la prova» del nesso causale tra le condotte contestate all'imputato e la morte della Clemente «evidenziando la presenza di ragionevoli dubbi circa la reale efficacia condizionante delle omissioni riscontrate». Ma per il rappresentante dell’accusa, la situazione è ben diversa: il decesso della donna sarebbe legato a diversi fattori riconducibili alle condotte di Terrone e tra queste «l'omessa predisposizione di procedure di primo soccorso che consentissero l'attivazione precoce e tempestiva dei primi due anelli della catena dell'emergenza che, in attesa dell'arrivo del soccorso avanzato, rappresentano un momento chiave per permettere la sopravvivenza dell'infortunato».

Nella sentenza, il giudice Pedone, aveva sostanzialmente spiegato che anche in presenza di informazione, formazione e misure di protezione ai lavoratori, Paola Clemente sarebbe comunque deceduta: per il magistrato, infatti, anche se è «indubbio» che l'imputato non abbia adempiuto agli obblighi verso i lavoratori, è «altrettanto vero» che «non si vede come siffatte procedure avrebbero potuto influenzare il decorso degli eventi che hanno poi portato alla morte di Paola Clemente».

Ma per la procura di Trani questa motivazione «appare, tuttavia, contradditoria ed illogica». Il pm Moramarco ha infatti evidenziato come i periti abbiano affermato che «pacificamente» che la donna presentava «importanti fattori di rischio specifico per cui il suo avvio al mondo agricolo doveva essere, almeno in fase pre-assuntiva, meglio stratificato»: in sostanza la mancata visita che accertasse le condizioni di salute della donna è stata una concausa del decesso attribuibile all’imputato. «Era, pertanto, doveroso - scrive il pm - per il datore di lavoro, come riconosciuto dallo stesso giudice, sottoporre i lavoratori, tra cui Paola Clemente, a visita medica preventiva m considerazione dei rischi connessi alla mansione dell’acinellatura».

Non solo. Per l’accusa anche i soccorsi prestati dopo il malore della donna hanno contributo al decesso: «Non vi erano addetti al primo soccorso in loco, né erano state predisposte dal datore dì lavoro - si legge nella sentenza - procedure in materia di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza»: un fatto «ancor più grave – conclude il pm - in considerazione del fatto che il luogo di lavoro si trovava in posizione isolata e distante dai centri di partenza/arrivo dei mezzi di soccorso». Ragioni che ora saranno contrastate dai difensori, Bepi e Angela Maralfa e supportate dai legali delle partici civili tra cui gli avvocati Giovanni Vinci e Antonella Notaristefano.

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