Basket
Il mondo magico di Vitucci, il «forzato» del canestro
Gli 'indimenticabili' di Varese? A Brindisi un gruppo di indomiti
Frank Vitucci, l’uomo del miracolo Happy Casa Brindisi. Brindisi, la piazza che ha adottato e apprezzato il coach veneto. Da Venezia a Brindisi, toccando Varese, Avellino, Imola, Torino e altre piazze. È lui, «malato» patologico del basket, che ha fatto riaccendere la vecchia Stella del Sud. Dove la palla a spicchi è una questione di vita e basta.
In una stagione meravigliosa può esserci spazio per i rimpianti?
«Rimpianti no. Rammarico forse sì. Siamo andati vicinissimi a quel qualcosa in più. A un canestro dalla Final Eight della Champions, a un possesso dall’ingresso nella finale di Coppa Italia. Rammarico, ma in un quadro generale che è andato al di là di ogni aspettativa».
Col pubblico «vero», Brindisi avrebbe guadagnato la finale playoff?
«Penso che i tifosi ci avrebbero dato una mano in più, un grossa mano. Il pubblico ci è mancato molto e quando lo abbiamo parzialmente ritrovato è stato quasi uno choc, non eravamo più abituati. Mi spiace che i giocatori non abbiano potuto vivere l’atmsosfera che i tifosi brindisini sanno creare».
Il suo mantra è «play hard and enjoy»: è andata così?
«Sì, abbiamo sempre provato a restare nel confine del mio motto. Mi piace ripetere quella frase ogni volta che si entra in campo. Perché se nella fatica trovi il divertimento, sei al top».
35 anni di panchine: più di mezza vita con la palla a spicchi. Vitucci, si è stancato?
«Ovviamente no (dice ridendo, ndr). La passione brucia la stanchezza. A volte ci sono momenti di riflessione. Ma quando c’è passione, è impossibile stancarsi».
Come è sbocciata la passione per il basket?
«Dove sono nato e ho vissuto, a Venezia, frequentavo una parrocchia, “La Madonna dell’Orto”. E lì c’era una società, la “Letizia”. Tutti giocavano a basket, mini basket... Insomma, non c’era alternativa. Ha presente quei quartieri di una città dove se non ti applichi in “quello” sport sei out? Era così».
Basket, dunque, per scelta e necessità. Un forzato della pallacanestro.
«Sì, in pratica un forzato del basket. Mi ci sono infilato dentro e non ne sono uscito più».
Se la ricorda la sua prima volta cestistica?
«Sono tanti i ricordi, credo di aver vinto la mia prima partita di basket. Ad esempio ricordo nitidamente quando a 8 anni mi portavano alla “Misericordia” a guardare partite di basket. Giocava la Reyer, in Coppa, contro una formazione slava. Mi colpì il pubblico, molto particolare, e un cestista: Buglini, un tipo anch’egli molto particolare».
Lei comunque passerà alla storia come l’uomo dei record del basket brindisino.
«Un po’ di numeri li abbiamo fatti, ma non tocca a noi tenere i conti. I record sono fatti per essere battuti. I miti no. Prendete Pentassuglia, resterà per sempre un mito».
Da queste parti Vitucci cosa sarebbe?
«Lascio giudicare agli altri. Mi piace pensare che un piccolo segno lo sto lasciando, sono felice di riuscire a restituire qualcosa a chi ha mostrato grande fiducia in me».
Qual è la «Partita» di questa stagione appena terminata?
«Farei fatica a trovarne una. Ci penso un attimo. Dire quella di Milano sarebbe banale. Treviso. In casa, quando perdevamo di 16 e vincemmo di 15, e fuori. Due punti di svolta».
Due finali di Coppa e la semifinale scudetto: se resta, non c’è alternativa, o vince la Coppa, o arriva in finale scudetto.
«Eh già... Ma vorrei dire due cose. La prima: pensare di fare meglio di così in campionato è da folli, ci sono tante variabili delle quali bisogna tenere conto, tante cose da rispettare. La seconda: uno di senno, avrebbe detto grazie di tutto e arrivederci. Un po’ come Conte all’Inter. Ma noi non siamo esseri normali, si va al di là. Bisogna essere consapevoli, anche dopo il terzo posto, di ciò che siamo. Se pensassimo di fare meglio per forza, sarebbe preoccupante».
Varese era quella degli indimenticabili: e Brindisi?
«Francesco Caielli coniò quella definizione, carina. Per Brindisi userei l’aggettivo indomiti. Ragazzi che hanno sempre lottato, provato, tenaci fino alla fine. E qualche volta non sono stati premiati».
Quale la cosa più difficile in questi anni brindisini?
«Momenti difficili ne abbiamo attraversati. Ecco, mi piacerebbe che la struttura fosse sempre più adeguata ai traguardi da raggiungere. Mantenere la A qui è complicato, va dato atto a chi si sforza in tale senso, è molto faticoso. Il palasport ad esempio è imprescindibile per andare avanti».
Vitucci è superstizioso?
«No. Odio la superstizione».
Quindi inutile chiederle se ha dei riti propiziatori.
«Distinguiamo. Ho delle abitudini, certo. Ascolto musica o leggo fino a poco prima delle gare».
Lei è anche mental coach: un vantaggio per un tecnico?
«In linea generale, per me lo è. Mi piaceva questa figura, la ritengo utile».
Appassionato di storia. Quale il personaggio che più la intriga?
«Dipende dai periodi storici. Sceglierne uno è complicato. Dunque, direi Napoleone e Churchill».
Ha visto allora “L’ora più buia”?
«Ho visto il film. Ecco, Churchill è stato un po’ il mental coach di una intera nazione. Obama, anche, mi è piaciuto».
Nel basket è ancora possibile inventare qualcosa?
«L’invenzione è saper capire le tendenze. E far sì che giocatori e pubblico trovino massima soddisfazione. Credo che il gioco sappia come evolversi. Certo, noi abbiamo l’obbligo di sperimentare, capire, copiare. A volte il copia e incolla viene meglio dell’originale. I cinesi sono maestri in questo».
Il tempo. Cos’è il tempo per un coach di basket?
«Una scansione continua di momenti in cui devi decidere. In meno di un secondo. Perché in un secondo può cambiare tutto».
Quante volte guarda l’orologio?
«Molte volte. È quasi un collegamento diretto. Vorrei che accelerasse in due occasioni: quando la mia squadra sta vincendo oppure quando sta malamente perdendo. Col tempo, la relazione è costante».
Il calcio ruba idee dal basket?
«Il calcio fino a un certo punto ha emulato, copiato, cercato di capire, è rimasto incuriosito dalla parte tattica. Per non parlare dei calci piazzati. Ci sono molte interconnessioni. E ora cerca di capire anche alcuni aspetti organizzativi, come i playoff, i time out. Cerca di rendersi dinamico come lo è il basket. Anche il Var… Nella Nba lo chiamano in maniera diversa, c’è da una vita».
E voi dal calcio?
«Negli sport di squadra il metodo di allenamento è variato e il calcio oggettivamente è davanti. È interessante capire i sistemi di allenamento, qualcosa può tornare utile anche a noi del basket».
Un libro o un brano musicale?
«Un brano. Ascolto musica classica, jazz, blues».
Ultima domanda: ce l’ha un sassolino da tirare fuori dalla scarpa?
«I sassolini possono diventare pietre. E non val la pena. Meglio tenerli nella scarpa. Godersi il momento e basta. La vendetta non serve».