Un anno di assestamento organizzativo, ma anche di forti criticità sul piano della repressione dei reati e delle politiche legislative. Il 2025 della Procura di Bari si chiude con luci e ombre, tra violenza di genere che non arretra e corruzione che muta pelle. A fare il punto è Ciro Angelillis, procuratore aggiunto di Bari, oggi con delega ai reati finanziari e contro la pubblica amministrazione, incarico assunto a giugno dopo oltre due anni e mezzo alla guida del dipartimento che si occupa del Codice Rosso.
Dottor Angelillis, che bilancio può tracciare del 2025?
«Dal punto di vista organizzativo è stato un anno positivo. Abbiamo superato molte difficoltà legate al nuovo sistema telematico di gestione del procedimento penale, che aveva rallentato le attività nel 2024 e nei primi mesi di quest’anno. I problemi non sono del tutto risolti, ma oggi il sistema funziona meglio».
E sul fronte dei fenomeni criminali?
«Occorre distinguere a seconda delle tipologie. La violenza di genere, di cui mi sono occupato fino a giugno, rappresenta un vero e proprio microcosmo in quanto è un’emergenza sociale prima ancora che un fenomeno criminale e proprio per questo si dimostra impermeabile alle continue riforme normative di tipo repressivo».
Non sono bastate le nuove leggi?
«No. L’introduzione del reato di femminicidio e l’inasprimento delle pene non hanno prodotto una riduzione dei dati. Il numero delle denunce e gli episodi restano costanti. È la dimostrazione che l’approccio esclusivamente repressivo non funziona: servono risposte culturali e sociali».
Da giugno lei segue i reati contro la pubblica amministrazione. Qual è il quadro?
«Dobbiamo distinguere due livelli. Il primo, più “basso”, riguarda la corruzione diffusa, particolarmente presente nel settore sanitario. Qui si registrano collusioni tra funzionari pubblici e imprenditori, soprattutto in relazione alla gestione delle gare d’appalto. Nonostante arresti e operazioni importanti, il fenomeno tende a ripresentarsi ciclicamente. In questo ambito, il problema maggiore è determinato dalle riforme che hanno indebolito l’azione di contrasto al fenomeno. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e lo svuotamento del reato di traffico di influenze illecite hanno infatti ridotto drasticamente l’efficacia dell’azione repressiva».
E il secondo livello?
«È quello più allarmante: il collegamento tra organizzazioni mafiose e istituzioni pubbliche, spesso attraverso il voto di scambio. Su questo fronte ci sono stati riscontri giudiziari importanti, che hanno confermato il nuovo corso delle organizzazioni mafiose».
Le mafie sono cambiate?
«Sì, profondamente. Non si contrappongono più allo Stato con la violenza, ma cercano accordi collusivi con imprenditori e pubblici amministratori. L’obiettivo è radicarsi nel tessuto economico e istituzionale, condizionando il mercato e la gestione della cosa pubblica. Di fronte a questo scenario, la società civile si indigna ma questa reazione di tipo emotivo non appare sufficiente, occorre isolare la cosiddetta “terra di mezzo” fatta di faccendieri o persone comuni che lucrano anche solo miserevoli vantaggi quando entrano in contatto con questi meccanismi perversi».
I fondi PNRR hanno inciso sull’aumento dei reati?
«C’è una relazione diretta: più aumentano le erogazioni pubbliche, più crescono truffe e tentativi corruttivi. Anche la Puglia è stata colpita da frodi organizzate, spesso realizzate da soggetti altamente specializzati».
Cosa si aspetta dal 2026?
«Sul Codice Rosso mi auguro un cambio di approccio: meno enfasi sull’inasprimento delle pene e più investimenti su centri antiviolenza, reti di protezione e percorsi di recupero culturale soprattutto nei confronti degli uomini violenti. Per i reati contro la pubblica amministrazione, invece, serve un ripensamento delle recenti riforme: abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite sono figure essenziali nel contrasto alla corruzione e vanno recuperate e riproposte, anche alla luce degli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale».















