le motivazioni

«Paola Labriola era in trappola, il Centro salute mentale Asl non era sicuro». La Corte d’appello: l’ex dg Colasanto lo sapeva

Isabella Maselli

Il 4 settembre 2013 la psichiatra fu uccisa da un paziente tossicodipendente con 70 coltellate. L'assassino Vincenzo Poliseno sta scontando 30 anni

L’ex direttore generale della Asl di Bari Domenico Colasanto «non ha mai mostrato il benché minimo segno di resipiscenza, addebitando sempre ad altri le responsabilità che gravavano su di lui quale organo di vertice della Asl» per non aver assicurato le adeguate misure di sicurezza nel Centro di salute mentale dove il 4 settembre 2013 è stata uccisa da un paziente tossicodipendente la psichiatra Paola Labriola, colpita a morte con 70 coltellate (l’assassino, Vincenzo Poliseno, sta scontando in carcere una condanna a 30 anni di reclusione). «Quella struttura - secondo i giudici - era una trappola infernale in cui non c’era alcuna possibilità di salvezza».

La Corte di Appello di Bari, nelle motivazioni della sentenza con cui ha confermato la condanna a 3 anni e 6 mesi per l’ex dg, imputato per omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d’ufficio nel processo stralcio sulla morte della dottoressa, avvenuta nel Csm di via Tenente Casale, nel quartiere Libertà, evidenzia che su Colasanto «ricadeva l’obbligo giuridico di affidare il compito di elaborare i Documenti di Valutazione dei Rischi della struttura, certamente inesistenti». «L’evento omicidiario che si è verificato - si legge nella sentenza - è strettamente collegato alle omissioni del datore di lavoro e ne rappresenta proprio la concretizzazione del rischio». «Dall’istruttoria dibattimentale svolta - scrivono i giudici - è emersa la prova univoca, documentale e testimoniale, della piena consapevolezza da parte dei vertici della Asl di Bari dell’epoca, ed in particolare del dottor Colasanto, in ordine alla inesistenza dei Dvr di centri di salute mentale».

Dure le parole dei giudici nei confronti dell’ex dg, la cui «protervia - dicono - si è spinta sino a denunciare la “mancanza di cultura di solidarietà tra i colleghi atteso che al momento della tragedia sono intervenute soltanto” una dottoressa e una infermiera “mentre se fossero intervenute tutte insieme - sono le parole di Colasanto riportate nella sentenza - avrebbero evitato l’evento riuscendo a fermare l’omicida”. In sostanza - stigmatizza la Corte - pretendeva atti di eroismo dalle poche donne in servizio la mattina dell’omicidio per ovviare alle carenze strutturali ed organizzative a lui addebitabili e che, in mancanza d’altro, avrebbero dovuto imporre quanto meno la chiusura di quel centro ed il trasferimento del personale presso altre strutture, così come fatto soltanto dopo la morte sul luogo di lavoro della dipendente pubblica».

Secondo i giudici «le modalità di realizzazione dei fatti omissivi dimostrano una persistente sottovalutazione del problema della sicurezza nei centri di salute mentale e addirittura un fastidio verso coloro che per segnalare i pericoli “scrivevano troppo”».

Il Csm di via Tenente Casale «era totalmente privo delle condizioni minime di sicurezza»: il videocitofono non era funzionante e la porta d’ingresso era apribile mediante semplice spinta; la stanza della vittima risultava priva di uscite secondarie e di sicurezza; erano assenti i dispositivi sonori o di allarme, vie di fuga, servizi di portierato o vigilanza; il personale medico ed infermieristico era composto da sole donne, con l’eccezione di un ausiliario, completamente inidoneo alla mansione svolta e, peraltro, assente il giorno dell’omicidio perché in ferie da settimane e non sostituito».

«Tale situazione di inadeguatezza del centro risultava ben nota ai vertici Asl - ricordano ancora i giudici - in quanto erano emersi, prima del tragico evento, episodi di minaccia e violenza nei confronti degli operatori del Csm dagli utenti del servizio». E quel giorno alla dottoressa Labriola, aggredita mentre era seduta dietro la sua scrivania, senza vie di fuga, non rimaneva altro da fare che urlare, inutilmente, «aiuto», tentanto disperatamente di sottrarsi a quella furia.

La Corte ha anche confermato la condanna per Colasanto a risarcire la famiglia della vittima, costituita parte civile con gli avvocati Paola Avitabile e Michele Laforgia, in solido con la Asl (responsabile civile nel processo).

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