I retroscena
Arresti clan Libergolis, parla il procuratore Melillo: «Realtà di straordinaria pericolosità»
I pm hanno parlato di un «clan centenario, una delle più brutte e pericolose del panorama nazionale», come confermato anche dai pentiti, i quali definivano i boss garganici «una leggenda»
BARI - “Saremo noi il vero virus quando usciremo e faremo tremare i clan avversari”. Così parlavano in carcere i vertici del clan Li Bergolis del Gargano, mentre dalle celle dove erano detenuti in regime di alta sicurezza continuavano a dare ordini, a gestire le attività illecite dell’organizzazione, narcotraffico ed estorsioni, tramite “pizzini” veicolati attraverso familiari, lettera e utilizzo abusivo di telefoni cellulari. Nel blitz di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza nei confronti di 39 persone, tra cui due donne, tutte destinatarie di misura cautelare (37 in carcere, 2 agli arresti domiciliari) sono state anche notificati sequestri, misure di prevenzione e tre applicazioni di 41 bis, cioè il carcere duro, adottate dal ministero della Giustizia.
L’indagine “Mari e Monti” della Dda di Bari, con il coordinamento della Direzione nazionale Antimafia, ha ricostruito gli ultimi 15 anni di operatività del clan Li Bergolis, dal 2009 ad oggi, documentando la continuità operativa di quella che negli atti viene definitiva "la più allarmante criminalità organizzata del territorio pugliese".
IL PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA MELILLO
“L’ordinanza fotografa una realtà di straordinaria pericolosità – ha detto il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo - perché alla dimensione violenta, vessatoria e intimidatoria si associa la sua straordinaria capacità di operare nella modernità, dal traffico stupefacenti al riciclaggio”. Il procuratore Melillo ha poi spiegato la “dimostrata necessità di chiedere il regime detentivo speciale dei capi che erano già in alta sicurezza, perché le indagini hanno dimostrato che il circuito alta sicurezza è inidoneo a contenere la pericolosità delle principali figure mafiose. Non si cessa di essere mafiosi con l’arresto” e anzi “il carcere è un luogo di normale operatività delle organizzazioni criminali, un problema che ci preoccupa molto perché limita l’effettività dell’intervento repressivo”.
I NUMERI DELL'INCHIESTA
Nell’inchiesta sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione mafiosa (a carico di 25 indagati); 2 associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti, spaccio di droga, undici estorsioni, armi, rapine, furti, favoreggiamento, trasferimento fraudolento di valori, ricettazione. Dieci milioni di euro circa è il valore complessivo sottoposto a sequestro patrimoniale (18 appartamenti, 12 terreni, 9 attività commerciali, polizze, 82 conti correnti). L’indagine, coordinata dai pm baresi Ettore Cardinali, Bruna Manganelli e Luciana Silvestris, ha raccolto 33 interrogatori resi da 18 collaboratori di giustizia, per totali 3580 pagine; 75 intercettazioni telefoniche; 53 ambientali e 16 telematiche, 22 siti sottoposti a videosorveglianza; 16 intercettazioni di colloqui carcerari, 160 pronunce giudiziarie acquisite e versate in atti; 26 procedimenti penali collegati, 3 provvedimenti di scioglimento comunale, 14 interdittive antimafia, oltre a sequestri di armi, munizioni ed esplosivi, droga.
LA VIOLENZA DEI LI BERGOLIS
L’indagine ha documentato la feroce contrapposizione armata con il clan Romito-Lombardi-Ricucci, che ha generato, nel corso di oltre un decennio, una inarrestabile scia di sangue (21 omicidi e 18 tentati omicidi), culminata nel quadruplice omicidio di S. Marco in Lamis di agosto 2017. È emersa anche la capacità di reclutamento di minorenni, con l'attivazione di un percorso di tutoraggio delle giovani leve, aiutati a fuggire dalle comunità e iniziati alla vita criminali attraverso piccoli furti. Il salto di qualità sarebbe avvenuto con l’espansione territoriale dall’entroterra foggiano alla costa. Il controllo di Vieste avrebbe consentito al clan Li Bergolis di occupare uno spazio significativo nella rete del narco-traffico internazionale, ponendosi quale affidabile interlocutore dei cartelli criminali albanesi e di importanti cosche della 'ndrangheta reggina.
Gli ingenti capitali derivanti dal narcotraffico internazionale, poi, avrebbero favorito il percorso di infiltrazione nel tessuto economico imprenditoriale, messo anche in evidenza dalle numerose interdittive antimafia disposte dal Prefetto di Foggia, con riferimento ad imprese ritenute, in qualche modo, riconducibili o comunque collegate al clan Li Bergolis. Non solo. La penetrante capacità di condizionamento mafioso del clan Li Bergolis ha riverberato i suoi effetti anche sull'apparato politico- amministrativo locale, generando, nell'ultimo decennio, lo scioglimento per mafia dei comuni di Monte S. Angelo, Mattinata e Manfredonia.
IL TERRITORIO SOGGIOGATO
I pm che hanno coordinato questa complessa indagine hanno parlato dei Li Bergolis come di un “clan centenario, una delle più brutte e pericolose del panorama nazionale”, come confermato anche dai pentiti, i quali definivano i boss garganici “una leggenda”. Alle attività del territorio, soggiogato per decenni dal punto di vista economico e sociale, il clan avrebbe imposto assunzioni, forniture, pizzo. “L’utilizzo della ferocia in maniera selvaggia e spregiudicata – ha spiegato il sostituto della Dna Giuseppe Gatti - ha generato un condizionamento ambientale assoluto, una tassa sovranità a dimostrazione di un potere assoluto antitetico a quello dello Stato”. “Io sto a monte, si devono mettere a posto” dicevano nelle intercettazioni. E da tutti, magistrati e forze dell’ordine, il rinnovato invito ai cittadini a denunciare, “perché è in atto un percorso che dimostra che lo Stato è al fianco della società garganica”.