Mafia
Bari, il boss scrive al clan rivale: «Se continua la guerra, vincerà solo lo Stato»
L’ex braccio destro di Palermiti, «Voleva fare pace». Per la morte di Gelao condanna all’ergastolo al presunto sicario
BARI - Era fuggito da Bari per paura di essere ucciso e dalla località in cui si era trasferito con la famiglia fuori città, Antonio Busco avrebbe inviato una lettera ai mafiosi di Japigia con una proposta di tregua, di pace, per non spargere altro sangue e non darla vinta allo Stato.
A raccontare nuovi dettagli di quella che è stata ribattezzata come «la primavera di sangue» di Japigia, che tra gennaio e aprile 2017 fece piombare il quartiere a sud di Bari in un clima di terrore per i ripetuti agguati culminati in tre omicidi e diversi ferimenti e pestaggi, è il collaboratore di giustizia Domenico Milella, ex braccio destro del boss Eugenio Palermiti.
Le dichiarazioni del «pentito» che raccontano di una lettera recapitata al clan poco dopo gli omicidi sono contenute negli atti del processo concluso nei mesi scorsi in Corte d’Assise con la condanna all’ergastolo di Busco per la morte di Giuseppe Gelao (6 marzo 2017). Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni di quella sentenza che contengono i verbali di testimoni e collaboratori di giustizia, intercettazioni e l’esito delle indagini della Squadra mobile.
LA LETTERA «DI PACE» Domenico Milella ha raccontato che dopo il pestaggio di un pusher eseguito dagli esponenti del clan alleato dei Parisi in omaggio alla rinsaldata alleanza con il clan Palermiti, ricevettero una lettera da parte di Busco (nel frattempo allontanatosi da Bari temendo di subire un agguato) con la quale l’imputato invitava alla pace, sostenendo che la guerra scatenata non aveva condotto ad alcun risultato e, inoltre, le parti avevano patito identici danni essendo stato ucciso un esponente per parte. «Noi, - ha detto Milella - siccome stavamo sempre nascosti, perché temevamo sempre… non sapevamo bene, poi, dove stava lui, prima di Anzio… stavamo nascosti, e avemmo questa lettera, e dicemmo… che è successo? No, abbiamo una lettera di Tonio Busco. Noi dicemmo “possibile? Tonio Busco ha mandato una lettera?”, c’era scritto che ormai questa guerra non la vince nessuno, la vince solo la magistratura, e faceva capire uno avete… abbiamo ucciso noi, uno avete ucciso voi, chiudiamola, e però io poi c’ho un conto aperto con i Parisi, con voi voglio fare… voglio fare pace, diceva sulla lettera. L’hanno letta cinquanta persone, questa lettera qua».
LA VERSIONE DI BUSCO Busco, uomo chiave di quella «primavera di sangue», colui cioè che secondo la Direzione distrettuale Antimafia (con i pm Fabio Buquicchio e Federico Perrone Capano) ha innescato la guerra per la gestione del traffico di droga, nel corso del processo ha raccontato la sua versione dei fatti, negando di essere il killer di Gelao (i giudici non gli hanno creduto) e negando anche l’esistenza della lettera «di pace». Oltre a tentare di demolire la credibilità del «pentito» Milella il quale, secondo Busco, lo aveva accusato ingiustamente usando una «tattica brutta, scorbutica, tipo una battaglia navale, che uno deve trovare la mossa giusta, per fare affondare la nave, messa da parte loro nel convocare la gente, nel domandare a trabocchetto chi è stato, chi non è stato, sapendo che la verità è ben altra, l’hanno fatto o anche sull’omicidio Gelao mettendo in giro voci su di me»).
LA PAURA Il gruppo di Busco, hanno rivelato le indagini e raccontato i «pentiti», già dopo un mese dalla morte di Gelao giravano armati tanto da incutere paura nella gente e continuavano nell’attività di spaccio della droga. «Spacciavano droga, avevano già creato un gruppo loro, e dopo l’omicidio di Gelao, era passato… già un mese, camminavano armati, come dire… erano… intoccabili, la gente aveva paura».
Nel quartiere avevano diffuso un clima di terrore tra i cittadini ma erano loro stessi ad avere paura. Tanto è vero che Busco e i suoi (Davide Monti, solo per citare il più noto dei suoi presunti sodali), lasciarono Japigia per «rifugiarsi» altrove, dopo una serie di atti intimidatori e ritorsioni.
Dopo l’omicidio Gelao, infatti, «iniziano una serie innumerevoli di condotte da parte praticamente del fronte unico Palermiti Parisi, una serie di condotte finalizzate a cacciare dal quartiere Japigia di Bari tutti quanti i congiunti, tutti quanti i parenti, tutte quante le persone vicine al gruppo di Busco. E quindi una serie indefinita - hanno documentato gli investigatori della Mobile - di incendi di strutture, incendi di autovetture, stese presso le abitazioni, una rapina con richiesta di estorsione».