disagio giovanile
Suicidi, il male di vivere dei ragazzi
Pietro Favia: «Il fenomeno è in crescita e riguarda il futuro della nostra società»
BARI - Basta tabù sul tema del suicidio. Parlarne è il primo passo per cercare soluzioni, per tentare strade nuove che aiutino a far emergere i disagi e a venirne fuori. A chiederlo a gran voce sono soprattutto le famiglie di chi ha creduto che non vi fosse via di uscita. Tra loro Pietro Favia, il papà di Dario, il 18enne morto il 28 agosto 2019, a poche ore dalle dimissioni dopo un lungo ricovero in una clinica psichiatrica.
Venerdì sera gli amici, con il supporto dell’associazione costituita dopo la morte del 18enne «Dario Favia - Lasciateci le Ali», hanno organizzato un mini torneo di calcetto, il primo memorial «Bombones Dario Favia» con il messaggio «Non arrendiamoci, Insieme si può». Sei squadre, alcune dai nomi improbabili di Accì’ngivòlmàl, Aston Birra (che si è aggiudicata la competizione), Le Gh’bbùse, Mèggh’i’a’ppérd, Real Amatori e poi ReStart (dell’omonima associazione di psicologi), si sono affrontate indossando magliette con il nome di Dario e con l’obiettivo di raccogliere fondi per l’associazione «a supporto di iniziative di prevenzione delle forme giovanili di disagio psicologico». Tra le finalità dell’associazione, infatti, c’è la sensibilizzazione sul tema e la diffusione di informazioni e conoscenze, perché «quando un figlio ti chiede aiuto, tu non sai cosa fare e anche su questo ci battiamo come associazione» spiega Pietro Favia.
Il tema del suicidio porta con sé uno stigma. È un altro ostacolo nel percorso di ricerca di soluzioni al problema?
«Dario ha vissuto in una famiglia aperta. Quando ci ha detto che stava male abbiamo subito cercato di aiutarlo. Ma abbiamo visto tantissime situazioni in cui non viene rivelato il problema per vergogna».
Dario è morto ad agosto. Un mese delicatissimo per chi vive condizioni di sofferenza interiore.
«Ad agosto i pazienti aumentano e i medici diminuiscono. Sarebbe utile avere una statistica, numeri che fotografino il fenomeno. E forse bisognerebbe ripensare il sistema dell’assistenza psichiatrica».
Non esiste una casistica dei suicidi?
«Solo dati sparsi, incompleti. Dovrebbe esserci un osservatorio regionale, o cittadino su questo. Ma c’è la volontà e la cultura per farlo? Tanti ragazzi stanno male, io ricevo telefonate di continuo. Non c’è una cosa peggiore della perdita di un figlio, non c’è neanche la parola per dirlo. Se perdi un genitore sei orfano, se perdi un coniuge sei vedovo, ma se perdi un figlio cosa sei? Non esiste la parola, perché non dovrebbe succedere. Perdere un figlio è come non avere più futuro. Intorno col tempo si creano cicatrici ma si resta vuoti dentro. Noi ci impegniamo perché la tragedia di Dario non si ripeta. Ci vogliono più risorse dedicate a intercettare gli esordi dei disagi psichici negli adolescenti e strutture e personale dedicate ai ragazzi in difficoltà. Il fenomeno è in crescita, e riguarda il futuro della nostra società».
Che ruolo ha la scuola?
«Importantissimo, ma non ci sono neanche gli sportelli di ascolto con uno psicologo nelle scuole. Il malessere giovanile è diventato una vera e propria epidemia. Le famiglie che si rivolgono a noi sono tante, ma di questo aspetto della sanità nessuno parla. Il Pnrr ha messo risorse in questa direzione? Essere seguiti da un professionista privato costa. Una delle cose che facciamo con altre associazioni come la nostra è acquistare corsi online con professionisti che trasferiscono informazioni agli insegnanti per dar loro più strumenti per intercettare il disagio. Ma insisto sullo sportello con uno psicologo a scuola. E non solo per prevenire i suicidi, ma anche per parlare di violenza di genere, delle questioni di genere, di bullismo e cyberbullismo, dell’abuso di droghe».
Per accendere l’attenzione sul tema avete organizzato un torneo dedicato a suo figlio Dario.
«Dario era una emergente personalità cittadina, casinista, allegra, affabile, spontanea. L’idea è stata di un suo amico, che si chiama Dario come lui. Da cosa nasce cosa e da una partitella tra amici sono diventati 60 i ragazzi che volevano giocare. Così abbiamo organizzato un torneo, abbiamo comprato magliette con logo e numeri. Noi come associazione abbiamo fatto da sponsor e catalizzatori, ho riunito a casa i capitani. Un momento di allegro casino, approfittando dell’evento per raccogliere donazioni».