la storia

Bari, omicidio Paola Labriola, il racconto del marito: «Ferita ancora aperta»

isabella maselli

Parla Vito Calabrese, il marito della psichiatra uccisa. Domani un sit in per ricordarla

BARI - Dieci anni fa moriva Paola Labriola, la psichiatra barese assassinata il 4 settembre 2013 mentre stava lavorando nel centro di salute mentale di via tenente Casale, nel cuore del quartiere Libertà, accoltellata da un paziente. A dieci anni da quella tragedia il centro è ancora chiuso e gli operatori sanitari continuano ad essere vittime di aggressioni. «La strada da fare sui temi della sicurezza è ancora lunga» dice Vito Calabrese, marito di Paola Labriola e lui stesso psicoterapeuta, che parla di «ferita ancora aperta per l’intera comunità».

Domani ci sarà una manifestazione proprio davanti alle saracinesche chiuse del Csm dove sua moglie Paola è stata uccisa. Quale messaggio intendete mandare alla città?

«Il sit in di domani è un modo per poter ricordare Paola, una azione simbolica a dieci anni dalla morte. Ma mi sono permesso di tirar fuori un argomento: la sede chiusa a suo tempo, giustamente, era una sede inadeguata, c’è anche un processo in atto nei confronti della Asl. Ma anche come cittadino dico: perché non è stato più riaperto il centro? Non ha senso. Io mi sono occupato di elaborare il mio trauma individuale, della mia famiglia. Ma c’è anche un trauma collettivo che ho colto dal primo momento, una ferita per l’intera città, per l’intera comunità. Questo lutto non è stato elaborato, riaprendo un centro migliore di quello di prima. I pazienti sono stati costretti in questi anni a peregrinare, spesso persone disagiate che non hanno auto e mezzi».

A un anno dalla morte di sua moglie Paola, è nato un Osservatorio a lei dedicato. Di cosa si occupa?

«Abbiamo curato diverse iniziative, siamo un centro studi, abbiamo cercato di allargare un po’ il campo, parlando di femminicidio, stalking, minori non accompagnati ma anche promuovendo esperienze positive, per esempio abbiamo promosso tempo fa al front office dell’Inps una iniziativa finalizzata a ridurre le conflittualità, con una esperta che si occupa di mediazione dei conflitti».

Al di là della struttura di via Casale, crede che la storia di Paola abbia innescato un processo positivo con maggiore attenzione ai tempi della sicurezza nei luoghi a rischio?

«Sicuramente si. Non ho contezza di tutti i centri di saluta mentale e di tutte le strutture, ma almeno a Bari adesso c’è sempre un vigilante all’ingresso. Ma io ho sempre fatto un discorso più ampio sulla sicurezza, che è stata anche dal numero degli operatori e, purtroppo, per un discorso di contenimento della spesa, ho visto nel corso degli oltre trent’anni in cui ho lavorato nei Csm una progressiva riduzione del personale».

Ritiene che il tema delle sicurezza nelle strutture sanitarie sia ancora una emergenza?

«Non si tratta solo dei Csm, ci sono i pronto soccorso e altre strutture dove si assiste a un aumento della violenza, dovuta spesso all’aumento del disagio a vari livelli, anche economico, e spesso gli operatori sono colpiti da maleducazione, irritazione. Se questi aspetti non sono simbolizzati, se non c’è una riflessione, se si resta fermi nel proprio dolore, impotenti, manca l’elaborazione del trauma collettivo. Non colpevolizzo nessuno, ma serve una riflessione sociale, altrimenti i traumi si ripetono, non si impara dalle esperienze».

Ha parlato di aumento del disagio. Nella sua esperienza, su cosa bisogna lavorare in città?

«È aumentato moltissimo il disagio dei giovani, su cui sicuramente ha inciso il lockdown, le chiusure del Covid e poi è aumentato l’uso delle sostanze, quindi delle dipendenze patologiche, c’è un aumento del disagio psichico, e non lo dico io, lo dice l’Istat, che ha certificato un aumento vertiginoso dell’uso di psicofarmaci. Noi abbiamo visto nei centri attacchi di panico, condotte a rischio, disturbi alimentari, persone dall’andamento esplosivo nel disturbo. Tutto questo, a fronte degli stessi operatori se non addirittura meno».

Sembra che la storia di Paola abbia scosso poco in fondo. Qualcosa è cambiato ma non basta?

«In questi anni ho sentito e colto la ferita negli operatori, nei cittadini. È un capovolgimento di senso, una persona che aiuta gli altri e viene assassinata, è terribile. Paola rappresenta un sacrificio, non voglio santificare la sua figura, era una persona che cercava di fare il suo dovere e si è trovata ad essere punita per questo. Tante persone e istituzioni mi sono state molto vicine, il percorso è stato avviato, ma la strada da fare è ancora tanta, bisogna mantenere lo sguardo attento su questi aspetti, senza nascondere la testa sotto la sabbia. I traumi vanno ritualizzati, perché così ci si sente meno fragile. Queste situazioni spingono nell’impotenza e nell’isolamento».

Per questo avete deciso di organizzare il sit in proprio davanti al luogo dove Paola è stata uccisa?

«Ho capito nel corso del tempo che i simboli e i riti servono ad abitare, a dare una casa, a dare sicurezza e sentirsi meno soli. Per me emotivamente non è facile tornare lì dove è avvenuto l’orrore, ma fa parte della elaborazione, fare in modo che da quella atrocità possa nascere qualcosa di positivo. Quel posto è rimasto chiuso, non hanno messo niente al suo posto».

La Asl proprio qualche giorno fa ha annunciato l’intenzione di riaprire un Centro di salute mentale proprio nel quartiere Libertà.

«Va bene una nuova struttura, sono felice, io pongo il problema per la cittadinanza, per i tanti anni di attesa. Che c’entra la comunità con quello che ha fatto l’assassino? È stato come colpevolizzare i cittadini del Libertà che è un quartiere disagiato con mille problemi».

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