Il 28 novembre del 1977

Bari, omicidio Petrone: la verità nelle carte

Isabella Maselli

Ricostruito dalla Procura barese il clima politico nel quale si mossero i neofascisti

BARI - L’omicidio di Benedetto Petrone racconta un pezzo fondamentale della storia politica di Bari, che fotografa non soltanto il clima di lotta di quegli anni, ma anche la spaccatura che quella vicenda provocò nella magistratura.

La lettura degli atti dell’inchiesta bis sul delitto (che individua i presunti co-autori ma si chiude con una richiesta di archiviazione per prescrizione) rivela uno spaccato che ha in quel 28 novembre 1977 soltanto il suo apice.

In più passaggi, nelle sentenze che dopo il delitto si occuparono dell’omicidio (il cui unico responsabile, Pino Piccolo, è morto suicida in carcere nel 1984) e della presunta ricostituzione del partito fascista contestata ai componenti della «squadraccia» che aggredì Petrone (tutti assolti), e poi nella nuova indagine aperta dal procuratore Roberto Rossi a oltre quarant’anni dai fatti, si evidenzia «la chiara matrice politica della spedizione comprovata dalla metodologia politica e dal movente», cioè un assalto squadrista da parte di persone armate e incappucciate, in una «azione preordinata, con la consapevolezza da parte di tutti dell’uso delle armi e della violenza, per ristabilire il controllo del territorio.

Non solo, - prosegue la Procura- ma una azione collettiva rafforza la volontà di ciascuno nell’uso della violenza atteso, il rafforzamento della volontà lesiva di ciascuno consapevole di essere sostenuto moralmente e materialmente da altri».

E respinge, il procuratore, la lettura degli «opposti estremismi», ricordando che «storicamente, sia la parte politica più debole ed isolata che, nel tentativo di crearsi uno spazio altrimenti non più conseguibile, ricorre per prima alla violenza, facendo leva sulla naturale aggressività dei giovani, privi di una salda e cosciente maturità politica».

Dal 1977 al 1983, poi, il mondo era sensibilmente cambiato: al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro era seguita la lunga stagione della repressione, anche giudiziaria, del terrorismo, che a Bari aveva colpito, il 28 novembre del 1980, l’agente Filippo, ucciso da Prima Linea nel tentativo di sottrargli la pistola di ordinanza. Alle elezioni politiche del 1979 il PCI aveva subito una netta perdita di consenso, soprattutto al sud, i movimenti di massa degli anni ‘70 erano ormai un ricordo, e con essi anche la memoria delle imponenti mobilitazioni che avevano seguito la morte di Benedetto Petrone e l’avvio delle indagini.

Nei fatti fu l’omicidio di Benedetto Petrone a generare il processo per ricostituzione del partito fascista, con una accelerazione improvvisa che culminò con l’arresto dei militanti della «Passaquindici» il 9 dicembre 1977, 11 giorni dopo la morte del giovane comunista. La Procura di Bari si mosse tuttavia lungo direttrici diverse e, per alcuni versi, opposte, che finirono per confliggere definitivamente nel corso del processo «Passaquindici», quando il Tribunale richiese la formale esibizione degli atti di indagine relativi all’omicidio Petrone e la Procura li rifiutò, opponendo il segreto istruttorio, con una decisione che suscitò le vibrate proteste di Magistratura Democratica. Quel conflitto proseguì nel corso dei due processi, dividendo la magistratura, l’avvocatura e l’opinione pubblica. Da un lato, le indagini sull’omicidio apparvero a molti timide e incerte, dall’altro l’accusa di ricostituzione del partito fascista si rivelò probatoriamente fragile e suscitò critiche anche da sinistra.

Lo stesso avvio del processo fu segnato da un tentativo di trasferirlo ad altra sede (rigettato) «per legittima suspicione», avanzata dal difensore di Piccolo «in considerazione del clima ingenerato dall’omicidio nella città e dall’inevitabile condizionamento che ne sarebbe derivato anche per i giudici».

Infatti, riferiva l’istanza, «l’annuncio della data di celebrazione del processo fu immediatamente accolto dalle forze genericamente collocate a sinistra, quali partiti, organizzazioni operaie, studentesche, come “un momento di mobilitazione antifascista”. Fu proclamata persino una giornata di sciopero nelle scuole con l’organizzazione di un corteo da piazza Fiume che si sarebbe concluso con un presidio davanti al tribunale».

Tra le testimonianza raccolte all’epoca e poi anche nell’inchiesta bis, c’è il racconto di Franco Intranò, l’amico comunista di Petrone che la sera dell’omicidio fu ferito. Gli altri al momento della carica dei neofascisti erano fuggiti ma Intranò rimase accanto a Benedetto, che non aveva fatto in tempo a fuggire, perché claudicante, quando gli si scagliarono contro, ammazzandolo.

Intranò è stato sentito dagli inquirenti a marzo del 2020. «Notai un gruppo di dieci persone sostare di fronte al teatro Piccinni - ha raccontato Intranò - , una “massa oscura” che si riversò sul marciapiede: avevano tutti il volto coperto da passamontagna, baveri alzati, sciarponi e l’unica cosa che si vedeva distintamente era il luccichio di quelle che al teste sembravano mazze da baseball verniciate. Il gruppo fu riconosciuto come appartenente alla fazione fascista perché i gruppi erano soliti osservarsi e i comportamenti e le movenze dei ragazzi politicizzati erano facilmente riconoscibili. Un gruppo iniziò ad attraversare la strada verso cinque compagni che già scappavano».

Compreso Intranò che, però, «dopo aver percorso circa 6 metri, tornai indietro non appena mi accorsi che il compagno Petrone non mi stava seguendo. Mi avvicinai a Benedetto che era piegato in avanti e in quel momento mi sferrarono una coltellata sotto l’ascella». Per scappare, dopo, dovette schivare le persone che lo accerchiavano e corse verso il Castello Svevo «mentre ero inseguito da almeno due persone». Qui ricevette aiuto dall’allora segretario della sezione, che lo accompagnò al Policlinico dove c’era già il cadavere di Benedetto Petrone.

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