Arte

Cancellate e ringhiere: anche Bari ha i suoi «ferri» d’arte

Redazione online

Da Spizzico a Capogrossi: grandi nomi «on the road»

BARI - Ringhiere, balconi, porte e cancelli... Gironzolando per la città, chi ci fa più caso? Eppure a volte nell'interno di una lunetta posta sopra un portone, oppure nelle ferree infiorescenze che fanno da balaustra ai balconi, o in particolari cancellate, è ancora possibile ammirare quell'arte del ferro, che oggi pare del tutto scomparsa; ma che costituisce un elemento architettonico tanto diffuso quanto misconosciuto. Chiunque si improvvisi flâneur in questi tempi di coronavirus potrebbe scoprire qua e là – tra una selva di ringhiere anonime e tutte uguali – un'opera di gusto, per quanto senza eccessive pretese, e addirittura un'opera d'arte.

È il caso a Bari del recinto della Facoltà di Giurisprudenza. Si tratta di una massiccia cancellata che riproduce un segno astratto più volte ripetuto, vale a dire il tipico disegno che più di ogni altro ha caratterizzato, anzi stigmatizzato, le opere dell'artista primordiale, o informale che si voglia, Giuseppe Capogrossi: infatti la cancellata ripropone il «forcone» aperto, ovvero chiuso a formare un ovulo. L'opera, in bronzo, è con ogni probabilità l'ultima creazione dell'artista romano, se non la sua unica destinata a un uso architettonico. Uno studio della storica dell'arte Christine Farese Sperken ne ha raccontato la storia: della sua committenza da parte dell'università di Bari (rettore Ernesto Quagliariello), della sua erezione nel dicembre 1972, e della collaborazione con altri due autori, Maurizio Sacripanti e lo scultore Alfio Castelli, che in sostanza portarono a conclusione il manufatto, dal momento che Capogrossi morì nell'ottobre del 1972.

Certo oggi, soffermandosi a osservare questa recinzione d'artista non si sa se scandalizzarsi di fronte alle innumerevoli scritte sovrapposte, o rassegnarsi a ritenerle un surplus di creatività spontaneistica...
Miglior sorte è toccata – almeno finora – alla cancellata di palazzo Andidero a Bari Vecchio, sulla Muraglia. Per quanto l'edificio abbia suscitato un acceso dibattito tra specialisti e non – tra chi lo ha considerato un'anacronistica toppa modernistica in un contesto antico, e chi invece ne ha lodato la capacità architettonica di inserirsi nel contesto senza deturparlo –, lo stabile offre al passeggiatore la visione di una piacevole sorpresa, che in sostanza si propone come vero legame tra contemporaneo e antico: è il cancello bronzeo di Raffaele Spizzico (firma e data: 1991 sono ancora visibili). La creazione di Spizzico ripropone stilemi e temi medievali. Non solo nelle figurazioni, ma anche nella strutturazione dell'opera. Infatti le varie formelle di bronzo, con immagini in serie, inserite in una griglia vagamente geometrica, ricordano il medesimo modo con cui procedevano anche gli artigiani medievali che forgiarono le porte bronzee delle cattedrali di Puglia, come Barisano da Trani.

Nelle formelle si ravvisa immediatamente una figura tipica della ceramica di Spizzico: il volto «raggiante», interpretato da alcuni come la dea Pomona, ma verosimilmente immagine solare (nella cancellata altre, più piccole, placchette rappresentano il sole; mentre all'astro rimandano le formelle quadrate o rettangolari con spirali, suo simbolo per eccellenza). A calare l'opera nel contesto barese, ecco formelle che riproducono la bottiglia della manna con tanto di san Nicola, ovvero il leone della giustizia con la colonna della gogna, o la facciata della basilica di San Nicola... La liaison tra oggi e ieri è compiuta.
Ma soffermarsi qua e là ad ammirare gli ultimi sopravvissuti di un'arte perduta, o semplificata, è possibile a chiunque: a cominciare dalla sontuosa pensilina di palazzo Mincuzzi (anni Venti) con volute a foglie di acanto e un nastro che ne percorre l'intera lunghezza decorato con ovuli, tipico ornamento peucezio o, se si vuole, romanico. Come anche non può passare inosservato lo stile floreale sfoggiato da balconi: da palazzo Dioguardi (via Crisanzio, angolo Trevisani), in cui alcuni degli originali fregi ferrei o sono andati perduti, o sono stati sostituiti da più semplificati disegni; oppure – per fare un ulteriore esempio – i balconi di palazzo Diasparro (corso Cavour, angolo via Piccinni; uno stabile liberty deturpato dalle ignobili vetrine e ferraglia a pian terreno) che mostra i residui segni di un raffinato linguaggio dell'arte del ferro. Altrettanto fa un palazzetto Radicchio in via Argiro (nr. 46, 1915-16) i cui balconi si armonizzano con lo stile liberty dell'intero stabile...

Si potrebbe continuare nell'elenco. Per quanto la massiccia semplificazione architettonica ha molto nuociuto a una immaginazione creativa, una selva di ringhiere, a spiedi di ferro fissati sui balconi, ci parlano di una mortificante anonimia. Che induce più facilmente il flâneur a non rivolgere loro alcuna attenzione.
Resta solo qua e là un portale a mostrarci un raffinato gioco in metallo ferro-bronzo, come quello di via Sparano 79; o in assemblaggio legno-ferro (Palazzo Atti, via Cavour 24). E restano tanti archivolti sopra i portoni, con lunette che non smettono di sussurrare in lettere di ferro le sigle dei nomi di chi ne fu un tempo il padrone di casa... Da non perdere la lunetta di palazzo Ingami-Scalvini del 1924: nell'archivolto raggiato, una dea Fortuna assiste a contrapposizione tra uomini e fiere con sei leonesse rampanti, sopra fanti, cavalieri che spingono centauri in cattività. Messaggio particolare?

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