Scelte di vita

Bari, infermieri in missione in Lombardia, tra paura ed emozione

Marina Dimattia

La storia di tre altamurani, Andrea, Annamaria e Silvia, che hanno deciso di prestare le loro competenze al servizio dei più deboli

«Alle 7 vi passo a prendere. Ah, ho dato il vostro numero a mia madre che vi ha aggiunto anche su facebook». Un pollice all’insù e un frettoloso ok congedano la conversazione avviata da Andrea su WhatsApp nel gruppo dall’oggetto quanto mai di tendenza «Andrà tutto bene». Lunedì si parte per Vimercate (Monza), in direzione di uno dei tanti presidi ospedalieri del Nord Italia in cui il virus assassino salta di letto in letto. Pronti ad accorrere al capezzale di una terra ferita e sprofondata nel dolore. Se il Coronavirus non avesse irrotto nella quotidianità, la lunga trasferta in macchina in programma il giorno di Pasquetta non sarebbe stata certo una «partenza intelligente». Ma Andrea, Annamaria e Silvia, i tre giovani infermieri altamurani che hanno deciso di non tirarsi indietro, anzi di proporsi volontari, non possono fare diversamente. Martedì si comincia. E il lunedì dell’Angelo sarà per loro un giorno spartiacque, tra prima e dopo. «Siamo consapevoli, la nostra vita sta per cambiare, il nostro modo di guardare le cose, dopo questa esperienza lavorativa, sarà completamente nuovo. Speriamo solo che vada tutto bene».

Qualche settimana fa, l’azienda socio-sanitaria territoriale di Vimercate ha pubblicato un bando per l’assunzione a tempo determinato di infermieri da impiegare nell’ospedale Covid della città, con un contratto semestrale. Se l’emergenza, però, dovesse rientrare, tutti a casa in anticipo. Il primo a rispondere presente è stato Andrea Signorelli, 28 anni che «ci ha trascinate dentro - riavvolge il nastro la collega Annamaria Rifino, 27 anni - all’inizio eravamo assaliti da troppi interrogativi, la paura del cambiamento, il timore di non essere all’altezza.

Poi, però, ha vinto l’amore per questo lavoro che, nonostante venga apprezzato solo nelle emergenze, noi lo amiamo tutti i giorni». Numerosi i curriculum inviati dovunque dopo la laurea, infiniti i concorsi a cui hanno partecipato, ma quella che li attende sarà effettivamente la prima esperienza in ospedale, dopo svariate assistenze domiciliari e qualche mese di lavoro in un centro di permanenza per rifugiati in Basilicata. «È qui che ci siamo conosciuti - aggiunge Annamaria- è stata un’esperienza di vita. Abbiamo visto persone identificate con numeri, private della loro libertà e siamo diventati per loro un punto di riferimento. Abbiamo incontrato ragazzi, anziani, diabetici, cardiopatici e abbiamo dovuto anche somministrare terapie con stupefacenti. Ma loro erano felici per un caffè. Quando è scoppiato il panico da coronavirus e la gente era pronta a farsi la guerra per un rotolo di carta igienica, ho pensato che forse questo virus ci avrebbe insegnato a rispettare il “diverso”, perché di fronte alla morte siamo tutti “africani sui barconi!” E questo è un augurio che faccio all’Italia. Spero che dopo questa brutta esperienza tutti noi saremo in grado di mettere da parte l’odio verso gli altri, solo perché cercano di sopravvivere, come noi, del resto, stiamo cercando di sopravvivere a questo virus».

Mentre i genitori dei ragazzi non tradiscono l’angoscia, l’orgoglio si miscela alla paura e, stretti nella decisione dei figli, a pranzo e a cena provano a far finta di niente, i tre infermieri non mostrano debolezze. «Il rischio fa parte della nostra professione, e a dire di più, proprio i numerosi colleghi, ora “angeli delle corsie” sono stati determinanti nella decisione di partire. Loro avrebbero voluto continuare in quell’opera che li fa onore. Noi andiamo lì anche per portare avanti quello che qualcun altro ha iniziato. Anche ai nostri genitori questo è chiaro, anche se quando l’ansia prende il sopravvento chiedono i contatti di tutti i famigliari degli altri due, o si iscrivono sui più disparati social di cui ignoravano magari anche l’esistenza» aggiungono in un susseguirsi di testimonianze di umanità. Pericolo di contagio a parte, sono anche ben consapevoli che le loro giornate non saranno certo indolore, che a squarciare il senso di responsabilità ci saranno ferite quotidiane. «Questa pandemia è una lotta contro il tempo- riflette Silvia Vicenti, 26 anni - una lotta ad occhi chiusi e senza armi in cui siamo tutti protagonisti, in modo diverso, ma nessuno escluso. Mi sento impreparata, forse nessuno era preparato a fronteggiare questa emergenza sanitaria, ma nonostante tutto ci siamo fatti trovare pronti, come lo siamo sempre d’altronde. Per cui io sono pronta a dare il mio contributo e non c’è tempo da perdere, questo è il nostro momento. Ricordiamoci che nessuno si salva da solo, dobbiamo volerci bene perché solo insieme vinceremo».

Le valigie sono pronte, tutt’altro che piene. «Tanto le nostre giornate si snoderanno in ospedale, bardati con i dispositivi di protezione individuale» fanno spallucce. E per incastonare le varie tessere del mosaico c’è voluta anche risolutezza e spirito d’iniziativa. «Telefonicamente, tramite un’agenzia lì a Vimercate abbiamo trovato un appartamento che divideremo tutti e tre, e questo ci dà senz’altro una carica non indifferente- continuano-Abbiamo avuto anche una lunga conversazione con una dottoressa che presta servizio nell’ospedale in cui lavoreremo, e che ha risposto alle nostre mille domande, anzi è stata proprio lei a dirci “Chiedetemi qualsiasi cosa”. Sarà lei la prima persona che incontreremo martedì e che ci farà da guida dopo un triage» si auto rassicurano, allontanando i fantasmi dell’incertezza. «Speriamo che dopo questa pandemia ci si ricordi di noi- conclude Andrea- si dia più valore alla Sanità e a una delle cose più belle che l’Italia ha: il servizio sanitario nazionale. Ci auguriamo che questo serva di lezione, perché la carenza di personale è emersa solo adesso. Noi ci siamo nel momento del bisogno, sempre. Ma vorremmo essere considerati fondamentali anche in momenti ordinari».

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