Il conto assai salato dell’industria per forza

MICHELE MIRABELLA

di Michele Mirabella

Rabbrividiscono i giornalisti raccontando la vita e descrivendo e analizzando le gesta di uomini. Mi capita di immaginare che anche le cronache rabbrividiscano talvolta e le notizie non siano inerti, viaggiando del carico che recano. Talora, penso possano ritrarsi, pudiche, pur di non recare dolore, angoscia, senso di colpa. Ma non è così: la comunicazione deve ritenersi indenne dalle cose che comunica, dalle informazioni che porta, salvo a liberarsi del suo carico e, forse, spesso non vede l’ora di farlo. È successo giorni or sono: i media non si sono ritratti sgomenti e hanno riferito di quel personaggio che, non sapendo d’essere intercettato, parlava di far morire dei bambini, anzi, sghignazzando, affermava di infischiarsi della loro morte causata dalle sue malefatte.

E, con sgangherato dileggio, affermava di voler perseverare nella cocciuta infrazione illecita e schifosa: lucrare denari per seppellire micidiali rifiuti tossici proibiti in luoghi dove dovrebbero crescere fiori: nei pressi di scuole ed asili. E, l’infame, rideva.

E ho pensato a qualcosa che scrissi anni fa, quando si cominciò a parlare della possibile, se non indispensabile, chiusura delle acciaierie di Taranto. Non si rideva: “Siamo tutti atterriti dalla chiusura dell’Ilva di Taranto. Perché la chiusura di una fabbrica significa scomparsa del lavoro per uomini e donne, per nostri connazionali, per nostri simili. Ma si può concepire di tenere aperta una gigantesca officina dove, con l’acciaio, si produce morte? Se questo fosse accertato, come sembra sia, chi potrà avere il coraggio di infischiarsene? Tutti noi Pugliesi abbiamo visto deperire e agonizzare una plaga magnifica di alberi e frutti, di erbe e acque e sole e aria nella caligine fetente e mostruosa alitata da un inferno industriale che giganteggia, strangolando una città, in quella che era campagna.” Questo scrivevo anni fa. Questo sottoscrivo oggi.

Il viaggiatore che si spinga nella zona industriale, in quella fetida periferia che sono i dintorni immediati di Taranto sente, immediatamente, un’ansia, uno sgomento, ammutolisce preoccupato e non vede l’ora di sbrigare quei chilometri cupi per risorgere scendendo sulla statale verso Metaponto. Non mette ottimismo quel panorama di ciminiere e stabulari di veleni, quello spumeggiare tetro di nubi industriali, quell’ immalinconirsi delle erbacce sulle prode e quel signoreggiare sinistro della polvere. La polvere è dappertutto, invadente, micidiale, silenziosamente accattona e postulante di spazio dove si insinua come un impalpabile orizzonte infernale disperso dalla chimica.

Viene in mente un verso terribilmente profetico di Ovidio che, nelle “Metamorfosi”, si angustiava: “Lurida terribiles miscent aconita novercae”. “Terribili streghe mescolano luridi veleni.” Una profezia di più di duemila anni fa. Qualcuno ha da ridere?

Quando studiavo questi versi, al liceo, lo ricordo benissimo, un’intera popolazione anelava le industrie nel mezzogiorno: efficienti macchine propagandistiche ricevevano impulso dalla cinghia di trasmissione del sottogoverno e della “sottoposizione”, tutti d’accordo, per combattere la lotta all’arretratezza col mezzo dell’industrializzazione. Non ci fu una cultura vera, pensata, della difesa di agricoltura e turismo: i vessilli da sbandierare erano quelli dello sviluppo attraverso le industrie e le industrie si sono fatte pagare carissimo, lo sbarco nel sud, nel mezzogiorno. La nostra attuale infelicità meridiana deriva anche da quella incoscienza, dalla mancanza che segnò la politica di allora di un vero sguardo al domani, calibrato e onestamente mirato. Solo dopo la sveglia a schiaffoni del Sessantotto, una coscienza ambientale finalmente provocata attivò il dubbio che si fosse fatta una devastazione per ottenere un troppo effimero “boom”. Qualcuno ride?

E le terribili streghe presentarono il conto affatturato. E ancora lo presentano. Come a Taranto, dove ancora i vecchi contadini spodestati rimpiangono agrumeti splendidi e splendidi uliveti espiantati per far posto a un insediamento industriale che non può continuare a produrre nelle condizioni terribili in cui si trova.

Ricordo, ai tempi in cui studiavo Ovidio, l’unanimismo trasversale che invocava l’occupazione e la pretendeva nell’industria. Ci fu addirittura un politico pugliese che arrivò a rassegnarsi con sfrontatezza: “Entro pochi anni l’ulivo sarà solo una pianta ornamentale”. Era solo in preda al cinismo, ma ci azzeccò: ora ci stiamo accorgendo di quali malefatte abbiamo consumato ai danni dell’olivicoltura. E, intanto, ladri maledetti sradicano ulivi millenari per farli diventare piante ornamentali nelle ville degli industriali del nord. Altri sradicano e demoliscono il passato di secoli a forma di tronchi e foglie per far posto al “futuro” gassoso dell’Italia.

Ma nelle casematte dell’Ilva non ci sono le streghe affatturatrici e velenifere, ci sono uomini e donne che rischiano di perdere il lavoro. I loro padri e le loro madri si illusero e furono illusi: il sogno dell’industrializzazione a tutti costi annichilì la campagna, avvelenò le acque, sradicò fiori e frutti, inquinò il mare pescoso e fece un deserto. Sempre a quel tempo studiavo anche Tacito che, nella “Germania”, fa dire dei Romani conquistatori: “Desertum fecerunt et pacem nominaverunt”. “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”.

Adesso questo deserto lo hanno chiamato industria ed è popolato di cittadini, compatrioti italiani ed europei che saranno sradicati dal lavoro come, una volta, lo furono gli aranci dalla terra. Si deve provvedere. E nessuno deve osare contrapporre la disoccupazione al rispetto della legge. Sarebbe un ricatto e un’infamia. Le leggi e vanno rispettate, l’ambiente salvato, il lavoro pure. Un paese civile, e l’Italia lo è, può trovare idee e risorse per pagare il suo debito alla legge, alla natura, alla giustizia sociale. Coi soldi che già ci sono, senza nuove tasse. E magari facendole pagare a quel tizio che ride della morte di bambini.

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