L'analisi

Guelfi bianchi e guelfi neri quella lezione dimenticata

Leonardo Petrocelli

Non è dato sapere perché Silvio Berlusconi abbia riproposto l’idea di un partito unico di centrodestra dopo la fallimentare esperienza del Pdl

Non è dato sapere perché Silvio Berlusconi abbia riproposto l’idea di un partito unico di centrodestra dopo la fallimentare esperienza del Pdl. Per qualcuno è solo un modo di buttare la palla in tribuna disinnescando le ambizioni salviniane su accorpamenti e federazioni.

Secondo altri, è una strategia per mimetizzare il buio declino di Forza Italia in una notte del centrodestra in cui tutte le vacche sono nere e dunque quella azzurra, un po’ zoppa, non la distingue più nessuno. La terza ipotesi, quella da malpensanti, vedrebbe Silvio intento più che altro a salvare se stesso, ritagliandosi il ruolo di presidente onorario e padre nobile di un pesante corpaccione conservatore, probabilmente vincente alle urne.

Qualunque sia il retropensiero del Cavaliere il punto è che, ogni tanto, qualcuno ci riprova. A far cosa? A trasformare l’Italia in un Paese «normale», cioè incardinato sull’anglosassone alternanza fra due partiti, uno conservatore, l’altro progressista, in perenne contesa. Decenni e decenni di «anomalia italiana» non hanno insegnato nulla se anche chi si è già scottato, come lo stesso Berlusconi, non riesce a contenere l’irresistibile tentazione di riprovarci.

Così come, a sinistra, fra un po’ di tempo, qualcuno si metterà in testa di riscoprire la «vocazione maggioritaria» di un Partito democratico che nasce per andar da solo, sbaragliando le armate nemiche, e invecchia aggrappandosi a maggioranze oblique, governi tecnici e nemici giurati (leggi M5S), diventati poi carissimi fratelli di lotta. Insomma, la democrazia liberale, almeno quella da manuale british, non è roba per noi. È paradossale, certo, per un Paese afflitto da eterni dualismi ma basterebbe approfondire un po’ di storia patria per scoprire che i Guelfi si divisero in Bianchi e Neri e pure i ghibellini si spaccarono al seguito dei figli di Federico II, parteggiando alcuni per Manfredi, altri per Corradino. È la guerra nella guerra a cui non sappiamo mai rinunciare fra campanili, personalismi e anche, bisogna dirlo, sfumature politiche sconosciute agli ottusi elettorati del Nord Europa.

Proprio il centrodestra italiano ne offre un esempio piuttosto generoso, fra governisti moderati (Forza Italia), sovranisti in fregola di «normalizzazione» (Lega), patrioti ubriacati dalla redditività del radicalismo (Fratelli d’Italia) e neocentristi pronti a capitalizzare, per contrappunto, la fuga a destra di tutti gli altri (Coraggio Italia). Tenerli insieme, in un movimento solo, è pressoché impossibile («non si inventa dalla sera alla mattina», ha tagliato corto Salvini). Più gestibile potrebbe essere l’idea di federare chi è già dentro il governo Draghi, migliorando la qualità della macchina organizzativa e di fatto fondendosi in un’unica realtà ma a patto, italicamente, di negare di essersi fusi.

Non è detto, oltretutto, che quest’ultima prospettiva non sia figlia di un più ampio cambio di passo europeo: staccare la spina alle «maggioranze Ursula» di mezzo continente, aprendo il gioco di governo ai sovranisti sempre a condizione, ovviamente, che questi ultimi si diano una calmata. Sarebbe la vittoria del Giorgetti-pensiero ma anche l’ultima opportunità di rilancio, almeno individuale, per i consunti leader del vecchio conservatorismo. Naturalmente, l’anomalia italiana è anche un’altra: chi, stando ai sondaggi, avrebbe la vittoria elettorale in tasca e, da qui al 2023, dovrebbe solo pensare ad amministrare il vantaggio, fa di tutto per complicarsi la vita incartandosi su fusioni, accordi e partiti unici. Autolesionismo in nome dell’auto-promozione: Salvini ha l’urgenza di contenere la Meloni e non perdere la leadership della coalizione, mentre quest’ultima lavora indefessamente alla propria scalata. Guelfi bianchi e Guelfi neri, appunto. In così acceso conflitto fra loro da dimenticarsi i ghibellini (e magari la vittoria...) per strada.

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