L'editoriale

La Festa della Repubblica e il dovere della memoria

Michele Partipilo

Per il secondo anno consecutivo saranno cerimonie in tono minore a causa del Covid, a cominciare da Roma, dove non ci sarà la tradizionale parata militare

Il 2 giugno di 75 anni fa gli italiani scelsero la repubblica e mandarono in soffitta la monarchia. Non è da escludere che a determinare la scelta siano state le donne, per la prima volta infatti furono ammesse a votare per una consultazione nazionale. Oggi lo storico anniversario sarà ricordato in tutto il Paese, anche se per il secondo anno consecutivo saranno cerimonie in tono minore a causa del Covid, a cominciare da Roma, dove non ci sarà la tradizionale parata militare. Un peccato perché un grazie pubblico a tutte le forze armate è più che dovuto per come hanno «combattuto» e per come stanno «combattendo» al fianco di tutti.

Di fronte alle ricorrenze sorge sempre l’interrogativo sul perché si celebrino. Noi italiani in particolare siamo poco legati alle date che segnano la storia del Paese, anche se recenti. Forse perché non ci siamo mai sentiti uniti in una entità chiamata Stato o Nazione, ma da sempre ci consideriamo diversi, separati. Certo le vicende storiche, dalla fine dell’impero romano in poi, non ci hanno aiutato; però dal 1861 le cose – almeno sotto l’aspetto formale - sono cambiate. Ma un sentimento nazionale forte, autentico, sentito ancora non si percepisce.

Lo viviamo di più in un campo di calcio, dove siamo pronti anche a cantare l’Inno di Mameli, ma nella pratica quotidiana ci sono sempre il Nord e il Sud, Milano contro Roma, le isole contro il «continente» e via di questo passo, fino ai campanilismi più esasperati.

Se questo è vero è allora più che mai necessario il dovere della memoria. Soprattutto in un tempo come il presente, in cui tutti viviamo un paradosso: ogni giorno abbiamo a che fare con la memoria infinita di Internet che registra e conserva ogni pensiero, ogni gesto, ogni evento, ogni immagine, eppure non ricordiamo più chi siamo e da dove veniamo. Non a caso oggi il diritto più invocato è il diritto all’oblio, cioè il diritto a essere dimenticati ancorché protagonisti di fatti accaduti in un tempo lontano. E se l’oblio è la porta attraverso la quale si arriva al perdono, è vero anche che può condurre alla fine della storia, almeno nella forma come l’abbiamo intesa fino a oggi.

La stragrande maggioranza del nostro patrimonio artistico e architettonico non è altro che il tentativo di essere ricordati al di là della morte. I monumenti – dal latino monere, ricordare – indicano proprio il desiderio di sopravvivere oltre la fine della propria esistenza. Ciascuno si porta dentro una voglia ancestrale di non essere dimenticato, di passare alla storia. Oggi questo desiderio profondo viene sublimato nella notorietà effimera data dai social, per cui tutti riteniamo di essere già nella storia. La conferma arriva dai like, dall’essere ritwittati di continuo. Non serve più ricordare, solo chi non vive un’esistenza digitale continua a ricordare e a cercare di farsi ricordare. Ecco perché abbiamo quasi tutti dimenticato cosa accadde il 2 giugno di 75 anni fa, ma anche perché celebriamo il 25 aprile o il 4 novembre. Il problema non è aver dimenticato le nostre origini collettive o eventi che hanno segnato in maniera profonda i destini di milioni di persone. La vera questione è che stiamo cancellando la storia e non si tratta di un’astrusa teoria di qualche pensatore stralunato. Anzi, l’esatto contrario: si pensi a quel crescente movimento che in nome del politicamente corretto o del rispetto dei diritti della persona chiede di cancellare nomi di strade e piazze, di abbattere statue, di bonificare monumenti e palazzi e non solo in Italia. È la storia da cancellare, l’antica pena della damnatio memoriae torna all’improvviso di attualità ed è inflitta non da un tiranno o da un governo di corrotti, bensì da una società che ogni giorno di più crede che la storia sia un inutile ammennicolo, qualcosa da tener chiusa nelle aule universitarie e di cui la gente comune può fare tranquillamente a meno.

Senza la storia siamo tutti dei nessuno: così dichiara di chiamarsi Ulisse per beffare il ciclope. E Ulisse è Nessuno quando è lontano dalla sua Itaca, dove lo riporterà la forza del ricordo della sua donna e di suo figlio. Se non custodiamo il nostro passato saremo sempre più dei nessuno e sempre più saremo incapaci di costruire il presente. Ieri il presidente Draghi si è soffermato sulla voglia di ricominciare e ha fatto benissimo. Ma per ricominciare è necessario avere una rotta, sapere cioè qual è il punto di partenza e quello dove si vuole giungere. Nella nostra società così complessa e articolata, dove il battito d’ali di una farfalla a Tokyo può provocare uno tsunami a Bari, non si può navigare a vista, non si può più pensare che sia sufficiente coltivare il proprio benessere, starsene chiusi nella propria abitazione e lasciare i problemi agli altri. La storia, proprio la storia che stiamo sciaguratamente dimenticando, ci insegna che non è possibile vivere da soli, immersi in un eterno presente.

Con questi pensieri celebriamo allora la Repubblica, forse non la forma di governo perfetta, ma pur sempre migliore di tutte le altre e ricordiamo coloro che hanno speso la vita per offrirci questo spazio di libertà. Una festa non è una ricorrenza astratta, è invece il modo migliore per onorare la nostra storia per ritrovare le nostre radici e per poter guardare al futuro come a un tempo per costruire e non a un tempo da temere. Buon 2 Giugno a tutti.

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