L'analisi
Le leggi non si fanno dal palco dei concerti
Il caso è deflagrato dopo le dichiarazioni di Fedez fatte dal palco del Concertone del 1° Maggio, con tutte le polemiche che ne sono scaturite
Nella composita maggioranza che sostiene il governo Draghi cominciano a evidenziarsi le prime crepe. Come spesso accade su quei muri tirati su troppo in fretta e dove non c’è stato il tempo di far asciugare per bene gli intonaci. Una di queste crepe, in realtà, è piuttosto profonda ed è determinata dall’approdo al Senato del disegno di legge Zan su «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».
Al di là della lunghezza del titolo, il disegno di legge vuole proteggere due categorie di persone: i disabili e tutti coloro che possono subire discriminazioni o violenze in ragione del loro sesso, genere, orientamento sessuale e identità genere. L’esatto significato di questi termini è spiegato nell’articolo 1 del ddl. Si tratta non di questioni astratte, ma di misure che toccano la carne viva delle persone e quando questo accade occorre muoversi con cautela e lungimiranza. Purtroppo non sembra questo lo stile adottato, dal momento che il caso è deflagrato dopo le dichiarazioni di Fedez fatte dal palco del Concertone del 1° Maggio, con tutte le polemiche che ne sono scaturite.
I fatti dicono che dopo il sì della Camera nel novembre 2020, il ddl è di fatto bloccato al Senato.
Buona parte del centrodestra e alcuni parlamentari cattolici sono infatti contrari all’attuale testo e ne stanno rallentando la trasformazione in legge. Contro il ddl Zan si sono apertamente pronunciati la Conferenza episcopale italiana, alcune associazioni di cattolici e anche gruppi di femministe.
Il ddl si può suddividere sostanzialmente in due parti: una prima, in cui modificando alcuni articoli del Codice penale, si affiancano a discriminazioni già codificate come quelle di natura razziale anche quelle relative al sesso o al genere. Su questo tutti i partiti sono sostanzialmente d’accordo e riconoscono la necessità di introdurre nel nostro ordinamento una serie specifica di reati e di aggravanti. Una parte minoritaria di politici e di giuristi obietta però che a tale scopo sarebbero sufficienti le aggravanti generiche dei «motivi futili e abbietti» già previsti per ogni reato. Quindi una legge sostanzialmente inutile.
Sappiamo però che l’Italia è la patria del «diritto creativo» ed è facile imbattersi in sentenze che, sfruttando lo spazio interpretativo concesso dalla norma, portano ad avere decisioni opposte su casi simili. Tutti ricordiamo la singolarità di quel verdetto con cui la Cassazione stabilì che non si poteva parlare di stupro poiché la vittima indossava jeans troppo attillati. Lasciamo perdere.
I due punti sui quali invece lo scontro è apertissimo riguardano la libertà di espressione e l’attività di prevenzione nelle scuole. Per quanto riguarda la libertà di espressione c’è da dire che il ddl si preoccupa di tutelarla, ma la formulazione dell’articolo 4, che affronta il «Pluralismo delle idee e libertà delle scelte» è infelice. Primo, perché la materia è estremamente scivolosa e tira in ballo diverse libertà di rango costituzionale; secondo, perché il «pluralismo delle idee» è un concetto fuorviante: le idee per loro natura sono e devono essere plurali, se l’idea è una sola è ideologia; terzo, perché il testo consente le interpretazioni più diverse, comprese quelle più volte sbandierate in tv e sui giornali dai detrattori del ddl Zan. Ecco che cosa dice: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Diciamolo, è parecchio ambiguo.
L’altro punto critico è dato dall’attività di prevenzione da svolgersi nelle scuole, soprattutto nella Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la trans fobia, attraverso «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile» al fine di «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione». Da tempo la scuola è in affanno nello svolgere una funzione formativa ed educativa. Le cause sono le più diverse, a cominciare dal susseguirsi di riforme e riformine, per finire al colpo di grazia assestato dal Covid e dalla Dad. In un contesto di questo tipo e davanti a platee di ragazzi e ragazze sempre più fragili è facile sbagliare bersaglio e trasformare un nobile intento formativo in un indottrinamento. Anche su questo punto andrebbe fatta più chiarezza e forse la promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione andrebbe declinata in tutta la società con programmi chiari, specifici e rivolti a categorie di persone determinate. Perché cultura del rispetto non vuol dire né vogliamoci tutti bene né che tutte le idee o tutti i comportamenti stanno sullo stesso piano.
Dalla lettura dell’intero ddl si evince che accanto alla giusta e condivisa necessità di definire e punire reati odiosi, c’è anche il tentativo altrettanto giusto di prevenirli, venato però dall’idea che una legge possa risolvere un problema di questa portata. Ma la legge contro l’omofobia non potrà mai risolvere il problema, così come nessun codice penale è mai riuscito a fermare l’omicidio o il furto. Serve uno scatto culturale. Una legge nasce per proteggere le potenziali vittime, per infliggere il castigo, per distinguere il lecito dall’illecito. È una fatale illusione prospettica immaginare che con una norma si possano fermare l’omofobia o il femminicidio. È questo il germe dell’errore contenuto nel ddl Zan. Ma va valutato e possibilmente corretto nelle sedi deputate, non sul palco di un concerto.