L'analisi

Quel pianto di una bambina in una scuola del 1928

Michele Partipilo

I media possono fare molto perché attraverso le parole cambino anche gli atteggiamenti e cadano le numerose barriere che ancora difendono i privilegi degli uomini

È il 16 dicembre 1928 in una scuola elementare barese. Il padre di un’alunna entra in classe e annuncia all’insegnante che ritira la figlia. Il motivo? Semplice, poteva pagare solo per una persona e poiché il figlio maschio era ormai in età scolare, meglio che frequentasse lui piuttosto che la sorellina. «Ma la bambina – annota l’insegnante sul registro – rifiuta decisamente di lasciare la mia classe e vi rimane, inflessibile a tutte le esortazioni». «Si svolge così in classe – è ancora la maestra ad annotare – una scena commovente a cui partecipano tutte le bambine che abbracciano e baciano la compagna».

Da allora sono stati fatti molti passi in avanti per migliorare la condizione femminile e, soprattutto, per la cosiddetta parità di genere, cioè la possibilità per maschi e femmine di avere le stesse opportunità, di vita, di libertà, di studio, di lavoro, ed essere trattati allo stesso modo. Nei decenni passati si parlava di «emancipazione femminile», oggi si preferisce la locuzione parità di genere. La differenza non è di poco conto. L’emancipazione è un processo di «liberazione da costrizioni e restrizioni tradizionali», come dicono i vocabolari, ma in cui non c’è un chiaro punto d’arrivo. L’emancipazione può durare secoli, anni o mesi e addirittura può non finire mai. La parità di genere è invece un traguardo preciso, con una meta chiara per tutti: l’uomo uguale alla donna.

Nelle ultime settimane la questione femminile è tornata alla ribalta con la nascita del governo Draghi. All’interno del Pd si è scatenata una rivolta dopo che gli esponenti del partito indicati ai posti di governo erano tutti maschi. Una protesta che ha anche pesato sulla decisione di Zingaretti di dimettersi. E il successore, Enrico Letta, non potendo sconfessare i ministri, ha dovuto far dimettere i capigruppo di Camera e Senato per far eleggere al loro posto due parlamentari donne. Un contentino per segnare un cambio di rotta.

La vicenda ha riacceso le braci che covavano da tempo sotto la cenere. Perché checché se ne possa pensare, l’Italia resta maschilista. Resta maschilista nelle professioni, dove ancora si guarda con curiosità mista a perplessità e sfiducia una donna che guida un jet, un bus, un treno. Resta maschilista nelle retribuzioni, dove le donne a parità di lavoro svolto (e non parliamo di rendimento) guadagnano anche il 20 per cento in meno. Per non dire della morale: è naturale che il «maschio latino» sia sciupafemmine e fedifrago, mentre una donna che si comporti allo stesso modo raccoglierà solo disprezzo e, se le va bene, l’appellativo di meretrice.

Uno strumento infallibile rivela la nostra arretratezza, culturale, sociale e politica in fatto di parità di genere: è il linguaggio. È qui che si percepiscono con chiarezza sessismo e maschilismo. Il dibattito costante sul femminile di vocaboli indicanti attività o professioni è l’indice di quanto sia difficile accettare l’ingresso delle donne in campi che fino a ieri si ritenevano di esclusiva competenza maschile. Ecco allora i dubbi, soprattutto nei testi ufficiali di delibere e sentenze: la pilota? L’assessora? La giardiniera? La medica? Molti vocaboli sono in realtà registrati dai dizionari, solo che non sono quasi mai stati usati per la semplice ragione che non ce n’era bisogno. Gli aerei? In cabina c’erano solo maschi, perché porsi il dubbio su pilota o pilotessa?

I media possono fare molto perché attraverso le parole cambino anche gli atteggiamenti e cadano le numerose barriere che ancora difendono i privilegi degli uomini. L’Ordine dei giornalisti dal 1° gennaio scorso ha aggiunto un articolo al suo codice deontologico: riguarda proprio il rispetto delle differenze di genere. Non è la soluzione a un problema enorme che coinvolge tutti, a cominciare dalle istituzioni. È però la via giusta per far affermare quel rispetto che oggi sembra essere solo una vuota parola di fronte ai femminicidi che insanguinano ogni giorno le pagine della cronaca.

Accanto ai media, anche le istituzioni potrebbero e dovrebbero fare molto. Fino a oggi, nella migliore delle ipotesi, si sono limitati a creare ginecei istituzionali con modesti effetti sulla vita sociale e politica. L’esempio del Pd citato prima è eloquente, così come è eloquente la vicenda della Regione Puglia, dove dopo anni di gestazione è stata finalmente votata una legge che in teoria doveva prevedere una più equilibrata presenza di maschi e femmine fra i consiglieri, ma alla fine si è rivelata un flop. La ragione è semplice: la previsione di liste elettorali con almeno un terzo di presenze di genere diverso non è tassativa, ma si risolve in una risibile sanzione economica se non è rispettata. E infatti più liste non l’hanno rispettata e in Consiglio regionale la presenza femminile resta ferma attorno al 10 per cento, la stessa percentuale dei decenni passati. La verità è che nella testa degli uomini – ancora oggi – il massimo che si può concedere è una sorta di «area protetta». Ma le donne non sono specie in via di estinzione da tutelare come i panda o i gorilla. Le donne sono persone che in ogni campo hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, e non solo in via teorica, ma nella pratica, nella vita di ogni giorno. E se sono più capaci o più efficienti dei maschi è un bene per tutti. Ma questo è un percorso ancora da compiere, la realtà ha ancora sullo sfondo il pianto di una bambina in una scuola elementare del 1928.

Privacy Policy Cookie Policy