La riflessione

Se parli come mangi salvi l’italiano e gli italiani

Michele Mirabella

«Parl com t’ha fatt mamt» da noi era, e ancora resta in auge

«Parl com t’ha fatt mamt» da noi era, e ancora resta in auge, la famigliare ingiunzione comminata dalla saggezza popolana a quelli che si «storcono» nel parlare. Nella espressività funambolica del dialetto barese «storcersi» sta per contorcersi, contorcersi nello sforzo di affettare un registro linguistico estraneo alle abitudini e alle inclinazioni spontanee. Si tratta di una furfanteria che alcuni imbelli e indecisi usano contro la gioia di arrendersi alla propria parlata madre. Costoro parlano, sempre secondo il malizioso Bertoldo che alligna nel popolo, il «giargianese». Questa parola meriterebbe la maiuscola perché è il nome di una lingua, meglio di una lingua gergale: quella che esprime il vanesio vanitoso che vuole esibirsi in un idioma che non conosce bene, affettando, con esiti comici, fonetica, pronunzia, grammatica e sintassi che non padroneggia. Ed ecco l’invito: «Parl com t’ha fatt mamt», parla come ti ha fatto tua madre. Mi torna in mente l’emozionante verso di Virgilio: «Antiquam exquirite matrem» (Eneide III, 96). Forse l’oracolo invita i reduci troiani a raggiungere l’ospitale lido del Tirreno da dove, come la leggenda raccontava forse mossero, nell’andirivieni arcaico, i coloni che fondarono Troia, ma sono certo che, a Virgilio, altro interessasse: non lo sbarco occasionale di profughi sbandati, ma i protagonisti della futura fondazione della civiltà latina, l’Italia tutta.

E oggi la madre è l’Italia tutta. Oggi, proprio nel senso letterale del termine: scrivo in data 17 marzo. Anniversario della proclamazione dell’Italia unita. E, oggi, in Italia si parla l’Italiano: perfino nelle pacchianerie della Lega non riuscirono a stilare un vero progetto di rifiuto della lingua italiana: solo schizzi di fango che non poterono sostituirla. Le varie mascalzonate ai danni dell’inno nazionale e della bandiera lasceranno il tempo che trovano. E pare che lo abbiano trovato nell’ultimo Sanremo, inteso come festival della canzone «italiana».
Il dilagare invadente della mania degli anglismi ha dato l’occasione al Presidente del consiglio, Draghi, di rimproverare con piglio amabilmente magistrale l’eccesso di anglismi che lardellano il nostro parlare quotidiano. Buona idea.
La verità è che la lingua italiana è stato il vero, poderoso e mirabile legame del Paese, di chi lo abitava, delle loro storie. «Anche se l’unità venisse infranta, come alcuni vogliono, non verrebbe comunque meno l’italiano». Lo affermò Umberto Eco intervenendo a un convegno, cui ebbi modo di partecipare dieci anni or sono, su «La lingua fattore portante dell’identità nazionale» e spiegò come, per paradosso, «gli unici che ritengono l' italiano come base della nostra unità sono quelli a cui viene a noia l’Italia post risorgimentale e vorrebbero scrivere i cartelli stradali in dialetto». Oggi Eco biasimerebbe le goffaggini degli sciocchi imbonitori che intasano la lingua italiana con l’alluvione di anglismi superflui che svolgono la stessa malsana funzione intimidatrice del latinorum degli azzeccagarbugli.
Insomma, la lingua, all'origine, non fu fattore di unificazione della nazione, è vero - Cavour il 17 marzo del 1861 scrisse a Massimo D' Azeglio una lettera in francese - però, subito dopo cominciò un paziente, incessante lavorio insostituibile compiuto da tutti e per tutti gli abitanti della penisola, per continuare il lavoro della fondazione della lingua italiana. Nelle trincee della Grande Guerra, poi nel tramestio vociante del ventennio, nella generosa opera di edificazione della Repubblica e della democrazia, e, infine, grazie ai media e, soprattutto, alla televisione, l’Italiano si impose definitivamente come lingua nazionale. Questo idioma unico, paradossalmente, nella dannata ipotesi della «disunione», diventerebbe indispensabile. Ma qual è l’italiano parlato oggi, a un secolo e mezzo dall'Unità? «L'Italia non si è assestata sull'italiano basico di Mike Bongiorno», spiegava Eco. E aveva ragione. Oggi l’omologazione cui i media hanno dato una folata di impulsi, sta macinando una gergalità popolare che, però, fatica a convincere e non aggrega: se parlate con un tassista di oggi, è come un laureato degli anni Trenta e suo figlio non lo capisce. E viceversa. Parla un italiano medio-alto a figli che non sanno più parlare italiano. La pratica degli sms ha portato uno studente a leggere «Nino Bixio» come «Nino Bi per Io». Questa è una generazione che non legge più i giornali e non guarda più neppure la tv, dove almeno potrebbe trovare Vespa o Bersani che parlano un italiano ragionevole, quanto alla forma almeno.
Ma è vero che non si deve disperare: la difesa di una lingua non consiste nella sua imbalsamazione, bensì nella tutela della sua vita fremente che muta incessantemente e muta incessantemente a condizione che la si difenda nella sua forma e nei suoi registri. Ognuno è libero di variarli, ma tutti sono tenuti a rispettarne la fonte e a conoscerne le origini. La parola Italia è un esempio perfetto. Nasce prima della nazione che designa, prima della Patria che così si chiama, prima e compiutamente della nozione che tutto il mondo conosce.
Metternich, in una lettera del 1849, sostenne, come ci ricordavano con risorgimentale indignazione i maestri delle Elementari, che l’Italia era solo «un’espressione geografica». Aveva ragione. Era tale, però, come non le erano mai state le altre nazioni che conquistarono il nome unico solo dopo aver raccolto intorno ad un’idea unitaria lo spezzettamento ereditato dalle brume dell’antichità e dal dominio imperiale di Roma. Era tale, ma in attesa di diventare un’espressione politica. E lo diventò, e come. Shelley, intanto, ci riscattò proclamando ammirato: «Tu paradiso degli esuli, Italia!». Fu parlando l’Italiano che il nostro cominciò a diventare quel Bel Paese proclamato da Dante che, per primo, lo vantò per un suono, quello del «sì». Il «sì» che assevera la volontà unitaria e la sete di libertà che conclude «Il canto degli Italiani», «Fratelli d’Italia», per intenderci. (a proposito, l’inno recita «stringiamoci a coorte, non a “corte”»: Quel «Sì!» urlato nella lingua che usiamo quando parliamo «com ci ha fatt mamm».

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