L'editoriale

L’insostenibile leggerezza del regalare consulenze

Giuseppe De Tomaso

Le commissioni di «competenti» andrebbero ridotte al minimo anche perché a furia di nominare commissioni su commissioni, si invadono campi di altrui pertinenza

Sosteneva l’economista americano John Kenneth Galbraith (1908-2006), che tutto era tranne che un indomito liberista, che le commissioni di esperti create dal potere politico per risolvere un problema, o affrontare un’emergenza, sono un insieme di stomaci, ma non di cervelli. Galbraith intendeva dire, si capisce, che, una volta stabiliti i posti al tavolo, l’interesse personale dei fortunati assegnatari finisce per prevalere sull’interesse generale del resto del Paese, cioè di intere popolazioni. Di conseguenza, le soluzioni razionali o saltano o si diluiscono nel tempo, mentre i benefìci per tecnocrati e consulenti vari contribuiscono a formare (e arricchire) una nuova classe di mandarini dall’estratto conto sempre più succoso.

Probabilmente Galbraith esagerava nell’attribuire ai componenti di commissioni, comitati, task force e cabine di regie, propositi esclusivamente estrattivi a danno delle casse pubbliche. Il potere politico spesso non dispone di tutte le professionalità tecniche in grado fornire risposte valide e tempestive per ogni imprevisto bisognoso di competenze specifiche. Ma se il parto di commissioni ed enti «ad hoc» (spesso definitivi) da eccezione si trasforma in regola, evidentemente qualcosa non funziona. Evidentemente, la voglia matta di lucrare posizioni di privilegio da ogni situazione di criticità è più endemica di una stessa malattia infettiva.

L’aspetto paradossale è che molti fortunatissimi percettori di pesanti gettoni pubblici siano costantemente in prima fila nel denunciare l’aumento delle disuguaglianze economiche tra i cittadini, argomento, quest’ultimo, assai utile per richiedere nuove commissioni speciali, per sollecitare nuovi team di (strapagati) studiosi ritenuti in grado di preparare toccasana prodigiosi. Cosicché può accadere che l’offensiva contro le disuguaglianze si traduca in un’«opportunità» per generare nuove, inedite disuguaglianze.
Ma non divaghiamo. La questione viene da lontano e accompagna l’intera storia del Belpaese, a partire dall’Unità nazionale (1861). È figlia del rapporto, strutturale e altalenante insieme, tra politica e burocrazia. La classe politica spesso si accorge che la burocrazia si ritaglia sempre maggiori spazi e ogni tanto (sempre la classe politica) cerca di correre ai ripari.

Ma chissà come, chissà perché, tutti gli interventi tesi a semplificare i processi decisionali e amministrativi, sortiscono l’effetto contrario: altro che semplificazione, il prodotto finale esprime, immancabilmente, un’ulteriore complicazione del sistema. Per dire. Ci provò, nel 1921, il primo governo di Ivanoe Bonomi (1873-1951), ad approvare una legge per la semplificazione burocratica. Nel 1950 fu il turno di Alcide De Gasperi (1881-1954) che affidò a Raffaele Pio Petrilli (1892-1971) la neo-carica di ministro per la riforma burocratica proprio per venire incontro all’esigenza insopprimibile di snellire pratiche e procedure. Macché. Non solo l’invadenza burocratica non si arrestò. Non solo i «signori del tempo perso» non arretrarono di un millimetro dai loro recinti di potere. Ma si assisté, anno dopo anno, a una moltiplicazione di incarichi, commissioni e «strutture di missione», al cui confronto impallidiscono i due miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci descritti nei vangeli.

All’origine del fenomeno c’è un solo vettore: la fabbrica legislativa continuamente all’opera. Ogni minimo problema, in Italia, richiede e ottiene una legge: una corsa forsennata che gli addetti ai lavori chiamano positivismo giuridico, ma che i comuni mortali patiscono peggio di un ingorgo stradale sulla strada delle vacanze. L’ingorgo legislativo è il terreno ideale per l’istituzione di una nuova squadra di «competenti» o per la consegna di altri strumenti normativi al ceto burocratico in auge. Anche perché - diciamo - la successiva interpretazione di ogni norma, resa necessaria pure dall’astrusità del linguaggio per i profani, impone professionalità all’altezza del compito. E così scatta una spirale che più perversa non si può. Una legge? È il pretesto per una o più commissioni di «esperti». Una commissione di esperti? È la molla per due o più sottocommissioni di approfondimento. E così all’infinito.

Logico che, rebus sic stantibus, la caccia alle consulenze a tutti i costi si trasformi nell’obiettivo primario di pletore di questuanti. La crisi delle professioni liberali, autonome, è figlia di questa degenerazione sistemica e sistematica. Se l’Apparato fagocita tutto, se le occasioni di guadagno dipendono quasi tutte dalle elargizioni di chi amministra la cosa pubblica, diventa quasi naturale che, prima o poi, anche gli spiriti più indipendenti, anche i professionisti più gelosi della propria autonomia, si arrenderanno alla prospettiva di bussare alla porta dei potentati pubblici pur di spuntare la mitica, salvifica consulenza. La qual cosa non costituisce di sicuro un elemento di conforto per l’efficienza, per la trasparenza del sistema, per la stessa fisiologia della democrazia. Una democrazia in buona salute ha bisogno come l’aria di corpi intermedi sani, liberi e indipendenti. E le professioni liberali, i centri, i protagonisti del sapere, sono un perno essenziale dei meccanismi intermedi. Basti pensare al ruolo fondamentale di tutela delle masse contadine, negli scontri con le amministrazioni, che Antonio Gramsci (1890-1937) riconosceva e assegnava agli avvocati dei piccoli centri rurali.

Ecco perché, dalla cabina di regia per il Recovery Plan fino all’ultima task force locale per una mini-alluvione, si fa presto ad affrontare le emergenze alimentando il mercato delle consulenze. Se questa fosse la via migliore, ci ritroveremmo da tempo in un Paese da cartolina, dal momento che il nominificio di esperti è l’unica attività che non conosce crisi o battute d’arresto, e dura da lunga pezza. Invece. Il più delle volte i sedicenti esperti fabbricano leggi, regolamenti che si elidono tra loro, aggiungendo confusione a confusione, tentazione a tentazione, malversazione a malversazione, sprechi a sprechi. Tanto, alla fine saranno chiamati ancora loro a risistemare le cose, a pronunciare l’ultima parola.

Conclusione. Le commissioni di «competenti» andrebbero ridotte al minimo, non solo per i timori palesati da Galbraith nell’incipit di questo articolo. Vanno ridotte al minimo anche perché a furia di nominare commissioni su commissioni, si invadono campi di altrui pertinenza. Vedi le numerose commissioni di inchiesta, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, in barba al principio della separazione dei poteri di montesqueiana memoria. E ci fermiamo qui.

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