L'editoriale
La crisimania tra verifiche e indovinelli (su Draghi)
Non si sa quali pieghe prenderà la (pre)crisi che Renzi minaccia da molti giorni. Si sa solo che l’ex premier è bravissimo nel tenere tutti sulla corda
C’era una volta un direttore di giornale che andava in crisi ogni qual volta un governo andava in crisi. Non appena il presidente del Consiglio pro tempore (è il caso di dire) rassegnava le dimissioni, il prudentissimo direttore dava alle stampe un fondo assai preoccupato che titolava, immancabilmente, così: «Grave errore».
Poi, dopo aver messo a riposo la penna durante le prime due settimane di «febbrili» trattative partitiche per la quadratura del cerchio (nomine di governo e sottogoverno), il direttore ripigliava coraggio e vergava un editoriale dal titolo anch’esso familiare ai lettori: «Sulla buona strada».
Trascorrevano altre due settimane. Infine, non appena il presidente del Consiglio incaricato scioglieva la riserva e si presentava al Quirinale con, in tasca, la lista dei nuovi ministri, il direttore riprendeva la sua Montblanc per completare il tris di articolesse di prima pagina. Titolo conclusivo: «Soluzione giusta». Anche quest’ultimo era un titolo collaudato, riproposto, come i primi due, in tutte le altre precedenti crisi di governo.
Insomma, poteva cascare il mondo, potevano, le crisi, nascere dalle motivazioni più disparate e dai protagonisti più inattesi, ma il Nostro non rinunciava mai al suo tradizionale repertorio, che prevedeva, appunto, per ogni crisi di governo, la riproposizione letterale, anche sul piano della sequenza temporale, di tre scritti e di tre titoli del tutto simili a quelli utilizzati in passato nelle medesime circostanze.
Ora. Se la ritualità (diciamo) scritturale delle crisi aveva contagiato, e omologato, persino la tribuna stampa, che pure avrebbe dovuto svolgere una funzione, per dire, più dinamica, figuriamoci come si era ossificato, anche sul piano lessicale, l’organismo linguistico generale di tutti i protagonisti della nostra storia.
Infatti. Il vocabolario delle crisimanie (affollato essenzialmente di messaggi cifrati) non mentiva e non si smentiva mai. Se spuntava la parola «verifica», ciò stava a significare che il governo in carica era in panne, e che nessuno aveva intenzione di dargli una mano a costo zero (ma con un rimpasto di ministri si poteva vedere). Se poi si faceva largo la parola «collegialità», ciò stava a significare che il presidente del Consiglio si era persuaso di potersi muovere da primo ministro, non più da mediatore tra interessi contrapposti. E che pertanto il «premier», meritava la dovuta lezione, caso mai si fosse montato la testa, ritenendosi più importante e decisivo di Winston Churchill (1874-1965). Se poi faceva rumore la rissa sulla «cabina di regia», ciò stava a significare che gli esclusi dal governo, o dal giro che conta, non avevano intenzione di restare a lungo digiuni, o con le mani in mano, e che, alla prima occasione propizia, si sarebbero scatenati contro gli ottimati al potere.
Non si sa quali pieghe prenderà la (pre)crisi che Matteo Renzi minaccia tutti i giorni da molti giorni. Si sa solo che l’ex premier è bravissimo nel tenere tutti sulla corda e che non ha ancora superato lo choc di aver mollato anzitempo la scrivania di Palazzo Chigi. Ma non è soltanto il leader di Italia viva a fare il diavolo a quattro per il cambio alla guida dell’esecutivo. Se lui agisce alla luce del sole, altri tramano protetti dalle tenebre, in piena liturgia da verifica, caratterizzata da inviti pressanti alla collegialità e da ammiccamenti (litigiosi) alle cabine di regia e via cencellando (dall’84enne Massimiliano Cencelli, supremo, leggendario conoscitore, misuratore e dosatore dei poteri palesi e occulti).
Verifica, collegialità, cabina di regia et similia (rilancio, tagliando, ripartenza, fase due, salto di qualità, implementazione, nuova agenda...) sono termini da orgasmo per gli orfani della Prtima Repubblica.
Condensano, per i loro adepti e cultori, una duplice virtù: contribuiscono a logorare i governanti in sella, fino a disarcionarli per sfinimento; e contribuiscono, vere armi di distrazione di massa, ad allontanare l’attenzione collettiva dai problemi reali del Paese.
Esempio. L’altro ieri alcuni quotidiani hanno riportato le preoccupazioni, e i suggerimenti impliciti, di Mario Draghi per l’economia italiana stressata dal Covid.
Poteva essere l’occasione per riaccendere i riflettori sulle misure anti-crisi affidate allo strumento del Recovery Plan. Poteva essere l’occasione per ridiscutere sulla destinazione dei 209 miliardi, una cifra colossale, suscettibile di ingolosire gli spiriti più spregiudicati. Roba che manco gli aiuti post-terremoto (1980) eccitarono così tanto. Poteva essere l’occasione giusta per esaminare parecchi dossier. Anche perché Draghi non è un passante qualsiasi. Draghi è Draghi, l’economista ascoltato e invocato in molti angoli del pianeta. Invece, le reazioni alla sua «predica» einaudiana sono state (salvo eccezioni) di gran lunga inferiori e più blande rispetto alle aspettative. I più attenti (si fa per dire) si sono attovagliati attorno al solito indovinello: Super-Mario punta a Palazzo Chigi o al Quirinale? Della serie: il tatticismo e il calcolo politico non si concedono un giorno di riposo e di attenzione neppure quando parla un mostro sacro della finanza internazionale.
Verifica, collegialità, cabina di regia. Ma per fare cosa? Andare alle elezioni anticipate? Bah, il voto conviene a pochissimi. Difficile, per non dire impossibile, rispondere. O forse, fin troppo facile: accelerare il turn over ai vertici dello stato e del governo. Il resto, direbbe la buonanima del Califfo, è noia.