L'ANALISI

Guai a ri-preferire i privilegi al dinamismo

vito spada

Il Paese sembra avvitato, incartato, abbrutito, sfiduciato e rancoroso con una litigiosità dilagante che sembra avere radicalmente corroso lo spirito del passato

«L’Italia è la scuola ed il cortile del mondo», così E.M.Forster, lo scrittore inglese, autore del “Passage to India” e ”Stanza con vista” , definiva il nostro Paese. Una meraviglia di città dense di patrimonio artistico, di stili architettonici diversi ed originali, piene di ricette e cibo prelibato, circondate da incantevoli paesaggi e dal clima mite che induce alla gioia di vivere. Per il dr. Samuel Johnson, un altro scrittore inglese del 1700 , “l’uomo che non è mai stato in Italia è sempre cosciente di una inferiorità”.

Con queste premesse l’Italia ha sempre goduto nel tempo una sorta di invidia per la sua posizione e per il suo retaggio culturale. Nel 1960 , con la vigorosa ripresa economica che si imponeva in Europa, il nostro Paese guadagnava una crescente ammirazione per le nuove conquiste sociali e culturali. L’economia registrava tassi di sviluppo mai visti in precedenza e il Paese sembrava vivo e voglioso di progredire. Affrontare la vita con le speranze della modernità era comune a tutti gli italiani. Il cinema diventava il palcoscenico su cui si proiettava la nuova Italia, lontana dalle macerie della guerra e dai disastri politici che l’avevano accompagnata. La fama della “bella vita italiana” si radicava non solo tra di noi, ma all’estero e soprattutto fra i Paesi che avevano vinto la guerra. L’Italia insomma, diventava una specie di mecca culturale e sociale da studiare e da vivere per i suoi vantaggi e per i risultati materiali della sua economia ed operosità in molti campi, dagli elettrodomestici, all’auto, alle costruzioni, alla meccanica, all’abbigliamento e così via. Quel mondo oggi appare a noi italiani, piuttosto lontano e pesino mitico. La realtà quotidiana non è più così brillante e carica di speranza. Anzi, il Paese sembra avvitato, incartato, abbrutito, sfiduciato e rancoroso con una litigiosità dilagante che sembra avere radicalmente corroso lo spirito del passato.

Recentemente l’Economist ha dedicato un lungo articolo alla nostra decadenza economica che vorremmo riprendere. Nel periodo fra il 1951 e 1963 il PNL italiano raddoppiò e alla fine del 1973 aumentò ancora di un terzo. Nonostante il terrorismo degli anni 70 e l’inizio della contestazione nelle piazze , l’Olivetti era allora la seconda azienda produttrice di computer dopo la IBM, Versace e Armani sbarcavano negli

Usa e il Paese nonostante tutto faceva passi avanti . Anche quel periodo sembra lontano. Il valore di mercato della nostra Borsa raggiunge a mala pena euro 500 miliardi, rappresentando solo il 3,7 % dell’indice europeo

Solo 7 aziende italiane appaiono nella lista delle 1.000 più grandi società quotate in borsa. Certo, si potrebbe obiettare che gran parte delle nostre aziende sono piccole e medie a carattere familiare. Il punto è che quelle dimensioni e quella struttura familiare di comando , peraltro ostile alla perdita di controllo delle aziende, difficilmente possono oggi competere con le altre grandi aziende mondiali proprio perché quelle difettano, a causa delle dimensioni, di importanti investimenti di capitale e tecnologia e di risorse umane adeguate al ruolo più difficile da tenere in una economa globalizzata. Molte aziende italiane , avviate come aziende familiari, sono state cedute a compratori esteri che hanno valorizzato con le loro dimensioni mondiali il prodotto italiano. Talune aziende come Luxottica hanno acquisito aziende estere , la Fiat si va fondendo con la PSA francese dopo aver spostato la sua sede legale in Olanda per usufruire dei vantaggi legali ed operativi di una sede in quel Paese. Altrettanto ha fatto la Campari e la Ferrero ha oggi la sua sede più importante a Lussemburgo.

Non è detto che anche Mediaset vada alla fine a stabilirsi come sede legale in Olanda. Molti italiani vedono sempre negativamente le acquisizioni di società italiane da parte di società estere, assumendo un deprecabile tono nazionalista che non guarda a quello che le aziende italiane acquistano sui mercati mondiali. Eppure gli esempi non mancano. Finmeccanica sta formalizzando la fusione con la francese Chantiers del l’Atlantique (ex STX) per la costruzione della più grande azienda europea navale e persino nel mondo bancario, Unicredit ha acquisito la HypoVereinsbank una grande banca tedesca diventando un grande operatore bancario europeo. La Luxottica di Del Vecchio è forse la più grande azienda nel mondo delle lenti proprio con acquisizioni all’estero. Atlantia ha comprato la spagnola Abertis, Granarolo ha fatto operazioni simili insieme alla Lavazza, Cremonini, Illy, Technogym e Zegna. Il problema italiano è la mancanza di un efficiente mercato finanziario per il capitale, che fa ricorso solo al canale tradizionale bancario con attività che per il 40% sono finanziate con debito a breve termine. Manca una efficace mercato per il “venture capital” che ha da noi dimensioni piccole e pesa l’età avanzata sopra i 60 , 70 e persino 80 anni di taluni capitani di aziende.

Abbiamo tutte le capacità per sviluppare aziende moderne e competitive, ma l’andamento pessimo della produttività, le limitazioni regolamentari a volte molto restrittive se non punitive verso le aziende private, insieme ad una Amministrazione che bada solo alla forma e non alla sostanza economica, ci impediscono di avanzare. La pandemia ha impietosamente messo in evidenza tutti i difetti italiani, compreso quello di allargare oltre misura l’intervento dello Stato che spesso spiazza e spaventa i privati. L’Italia nel “Doing Business” della Banca Mondale è 58esima su 190 Paesi.

Come ha ricordato Mario Draghi qualche anno fa, Venezia ed Amsterdam nel diciottesimo secolo persero la loro importanza economica per avere preferito i privilegi all’innovazione ed al dinamismo economico. Vogliamo adesso ripeterne la stessa esperienza?

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