L'EDITORIALE
La filosofia del Gattopardo sulla questione femminile
È davvero un Paese strano, l’Italia. Persino una riforma semplice, come quella sulla parità di genere, comprensibile pure in prima elementare, diventa un’occasione per mettere sabbia nei meccanismi per rendere eterna la filosofia del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla
Le elezioni dovrebbero essere selezioni di capacità. Dovrebbero. Spesso, invece, specie in Italia, si traducono in selezioni di incapacità. Non si spiegherebbe, altrimenti, la crisi generale in cui, da tempo versa il Belpaese. Una classe dirigente all’altezza dei suoi compiti di sicuro avrebbe governato e amministrato assai meglio lo stato centrale e gli enti locali. Ovviamente, le responsabilità non sono a senso unico. Anche la società civile, a volte incivile, non è immune dal virus dell’indifferenza verso la cosa pubblica, e dal virus della connivenza con la mediocrazia, anzi la peggiocrazia dilagante.
La questione femminile nei posti chiave della nazione è, come si sa, indicativa. In un Paese normale non si avvertirebbe nessuna esigenza di intervenire per legge a sostegno di un equilibrio uomo-donna dietro le scrivanie che contano. Le donne non sono un mondo a sé, o un mondo a parte che, a un certo punto, va tutelato e salvaguardato alla stregua di un genere particolare, così come succede per certe specie di animali in via di estinzione. Le quote prestabilite nei luoghi della rappresentanza e della decisione non costituiscono certo il massimo del riconoscimento sociale e della ratifica meritocratica. Né il ricorso a questo strumento di parificazione rappresenta, o dovrebbe rappresentare, un motivo di vanto per chi ne coglie le opportunità.
Ma c’è un ma. Qualcosa (eufemismo) non deve funzionare in un Paese se, pressoché da sempre, va in onda una selezione umana alla rovescia.
E che sia così, lo dimostrano anche i dati che non riguardano l’attività politica. Scrive l’economista Luigi Zingales in un libro, sull’economia corrotta, edito pochi anni fa: «Il processo di selezione dei talenti è così marcio che nel Belpaese molte persone, soprattutto donne e dotate di tutte le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i ruoli dirigenziali sono affidati a chi è introdotto, anche se spesso incapace. Per questo in Italia ci sono le migliori segretarie e i peggiori manager».
Che dire? Un’analisi perfetta. Né ha mai fatto breccia, in un Paese culturalmente arretrato, corporativo, e sostanzialmente maschilista come l’Italia, il celebre detto della britannica Margaret Thatcher (1925-2013): «Se vuoi parlare di un problema, rivolgiti a un uomo. Se vuoi risolvere un problema, rivolgiti a una donna». Certo, la Lady di ferro era, giustamente, in linea con la sua estrazione culturale, contraria alle quote rosa nelle liste elettorali e in altri ambiti, ma probabilmente avrebbe cambiato opinione se fosse vissuta in Italia dove nessuno nel 1979 le avrebbe mai offerto l’opportunità di guidare la quinta o la sesta potenza economica del pianeta. (In verità, in Italia, manco adesso la Signora avrebbe ricevuto questa prestigiosa opportunità).
E veniamo a noi, al caso pugliese. Premesso, come sopra accennato, che un Paese avanzato e una regione davvero sviluppata non avrebbero dovuto ricorrere a una legge di dettaglio e neppure a una legge di principio per fissare un minimo di parità di genere nelle liste elettorali, perché avrebbe dovuto provvedervi l’ordine spontaneo, sostenuto dalla maturazione politica di leader, quadri intermedi e militanti vari. Premesso questo. Ma, qui, come scriverebbe l’inarrivabile Gianni Brera (1919-1992) , si sta giocando alla «viva il parroco», ossia si sta tirando la palla a casaccio per impedire che l’azione arrivi a compimento. In Puglia si finge di ignorare che il problema reale, se si vuole sul serio favorire la parità di genere in Consiglio regionale, non è tanto quello di stabilire per legge la preferenza lui-lei qualora l’elettore voglia indicare due nomi, anziché uno. Il problema vero è stabilire, per legge, la proporzione di genere 60%-40% nelle candidature in elenco. Ma da questo orecchio il Sistema, ossia il Contesto, sente poco o non vuole stare ad ascoltare: vuoi perché ai decisori, ai facitori di liste (al 99% uomini) conviene poco scombussolare equilibri e accordi pre-elettorali già siglati; vuoi perché la proliferazione delle stesse liste renderebbe più complicato, per giunta a poche settimane dal voto, il rispetto del rapporto 60%-40%. Di conseguenza, meglio aspettare, guadagnare tempo, fare melina, gettare la palla in calcio d’angolo, anche a costo di ingarbugliare vieppiù la matassa di gioco. Il che tradotto in atti formali significa forse creare le premesse per una valanga di ricorsi, il cui numero oscurerebbe il report delle valanghe alpine in pieno inverno.
È davvero un Paese strano, l’Italia. Persino una riforma semplice, come quella sulla parità di genere, comprensibile pure in prima elementare, diventa un’occasione per mettere sabbia nei meccanismi, al fine di bloccare la novità o di rendere sempre più valida ed eterna la filosofia del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla. Infatti. Non sarà lo spauracchio di una multa a spingere gli artefici delle liste a garantire il rapportro 60-40% tra i generi.