L'EDITORIALE
Noi e la crisi, l’illusione di farsi troppe illusioni
La pandemia, oltre ad essere il presupposto per interventi urgenti ed efficaci a fronte delle tre emergenze (sanitaria, economica e sociale), poteva rappresentare il pretesto per un cambio di passo radicale da parte dell’Unione. Senza ritardi e rinvii
Il modo peggiore per analizzare la lunga e difficile trattativa sul Recovery Fund e sul bilancio Ue 2021-2027 è quello di rimanere imbrigliati dentro la polarizzazione europeisti/anti-europeisti. A parte il fatto che i cosiddetti anti-europeisti in molti casi sono più che altro “diversamente europeisti”, resta la complessità di una situazione che rivela molte fragilità strutturali e non pochi equivoci dal punto di vista delle culture politiche di riferimento. Lo dimostra la contrapposizione tra i Paesi cosiddetti “frugali” (Nord Europa) e quelli mediterranei (Sud Europa). Schieramento quest’ultimo del quale fa parte l’Italia. A fare da cornice ci sono visioni antitetiche. Da una parte c’è la visione di chi non vuol procedere fino in fondo all’integrazione e preferisce che il baricentro delle decisioni resti nelle mani del Consiglio europeo con l’intento di accrescere il peso specifico di ciascun Paese e condizionare così il potere decisionale altrui, anche attraverso meccanismi di blocco ed interdizione. Dall’altro c’è la visione di chi spinge a favore di un modello comunitario che, proprio perchè tale, non può non riconoscere ampi margini di manovra alla Commissione europea.
La pandemia, oltre ad essere il presupposto per interventi urgenti ed efficaci a fronte delle tre emergenze (sanitaria, economica e sociale), poteva rappresentare il pretesto per un cambio di passo radicale da parte dell’Unione. Senza troppi tira e molla. Senza troppi tatticismi. Senza ritardi e rinvii. Poteva, ma non è accaduto. Se brucia un palazzo, a tutto si vuol assistere meno che i pompieri si mettano a discutere su come è meglio spegnere le fiamme o su quali idranti usare. A fine maggio, forse con toni troppo enfatici ed ottimistici, in molti avevano parlato di svolta dell’Europa. Lo spettacolo andato in scena lo scorso fine settimana ha dimostrato come il clima di concordia sia professato solo a parole. Al netto della differente postura assunta dalla Merkel (specie per la concomitanza del semestre di presidenza da parte della Germania) a beneficio del modello dell’Europa delle politiche comuni più che di quello dell’Europa dei trasferimenti, nulla sembra cambiato. Tutti i nodi sono venuti al pettine, nonostante le decine di migliaia di vittime del Covid, nonostante la perdita di posti di lavoro e la riduzione del Pil, nonostante i nuovi equilibri geopolitici dentro e fuori l’Occidente.
Il primo nucleo dell’analisi ruota, dunque, intorno al modo in cui l’Europa si sta muovendo. Colpisce la naturalezza con la quale si sostiene che è normale discutere e rinviare le decisioni e che il precedente negoziato sul bilancio dell’Unione aveva richiesto all’incirca un paio d’anni, considerando i diversi passaggi tra Commissione, Consiglio e Parlamento. Colpisce perché questo atteggiamento dimostra che non tutti hanno compreso la drammaticità della crisi innescata dalla pandemia: molti Paesi, tra i quali l’Italia, stanno pagando ancora le conseguenze della recessione del 2008. Appassiona poco la questione del bilanciamento tra prestiti e trasferimenti di risorse a fondo perduto. Questione intorno alla quale è andato in scena nel fine settimana lo scontro con i Paesi frugali, strenui difensori peraltro degli sconti alla contribuzione finanziaria. Più significative sono le questioni della governance, del potere di veto e della pretesa del voto unanime, del “freno d’emergenza”, del meccanismo dei controlli e delle dinamiche legate alle condizionalità. Ancora una volta emerge la mancanza di fiducia reciproca. Ancora una volta si afferma la cultura del sospetto. Ha la meglio l’enfatizzazione, al cospetto delle opinioni pubbliche nazionali, di posizioni identitarie e la promessa di risultati che si fatica ad ottenere, nonostante l’urgenza delle misure a sostegno di imprese e famiglie e di interventi per ridurre le disuguaglianze sociali. Il Consiglio europeo si è riunito a metà luglio. In ritardo, considerando che la pandemia è scoppiata a fine febbraio. Finora è stato trascurato un dato di grande importanza e cioè che le risorse non saranno immediatamente disponibili, ma solo dalla tarda primavera del 2021. Tra settembre e ottobre l’Italia può beneficiare solo di alcuni programmi di coesione con i fondi del precedente bilancio comunitario. Bastava questa consapevolezza per evitare di replicare uno schema rivelatosi, alla prova dei fatti, inefficace e pericoloso. Si aggiunga anche un’altra considerazione. Sta dimostrandosi riduttiva la lettura iper-semplificata delle vicende europee da parte della cultura mainstream che iscrive tra i buoni il fronte dei popolari, dei socialisti e dei liberali e tra i cattivi quello dei cosiddetti sovranisti. L’Olanda è governata da liberali e popolari. La Svezia e la Danimarca dai socialisti. L’Austria dai popolari e verdi. Ieri il più duro con premier olandese Rutte è stato l’ungherese Orban, che pure deve risolvere la questione della conformità delle proprie scelte ai principi dello Stato di diritto.
Il secondo nucleo analitico è relativo alle specificità dell’Italia. Perché in molti non si fidano del nostro Paese? Le ragioni sono tante. La prima: è vero che l’Italia non è la Grecia e che in Europa si vuole evitare un nuovo caso Brexit, ma continuiamo a registrare primati negativi come, per esempio, quello di avere il terzo debito pubblico al mondo e di crescere oggettivamente meno degli altri. La seconda ragione: finora non abbiamo dimostrato di saper portare avanti un progetto di riforme credibile e lungimirante, imprigionati come siamo nella logica emergenziale. L’instabilità, oltretutto, sembra essere la cifra del nostro sistema politico, avvitato da anni in una preoccupante crisi della rappresentanza e della governabilità. La terza e ultima ragione è inerente l’attuale contesto politico. Il secondo governo Conte è nato in fretta e furia e con il solo obiettivo di evitare che la coalizione di destra-centro andasse al potere. Governare per impedire che gli altri lo facciano è cosa completamente diversa dal governare per portare avanti un’idea di Paese frutto di sintesi tra i partiti di maggioranza. Non solo sono tanti i distinguo sui singoli dossier tra Cinque Stelle, Pd, Italia Viva e Leu, ma è evidente come all’interno di ciascun partito si portino avanti battaglie personali, finalizzate al consolidamento del proprio potere a discapito di quello altrui.
Ultima annotazione. Mentre a Bruxelles si litiga, quattro milioni e mezzo di contribuenti devono pagare a partire da oggi una quantità enorme di tasse, anche se non hanno guadagnato o hanno guadagnato meno. Ripartire dal principio di realtà è un obbligo.