L'opinione
Ma un timbro può stabilire la sofferenza insopportabile?
«Resta l’amaro in bocca. Per l’ennesima occasione mancata da un Paese che fa fatica a costruire uno spazio pubblico di dibattito in grado di dare risposte impegnative, forse anche dolorose, a quesiti fondamentali»
Francesco d’Assisi, nel suo splendido Cantico delle Creature, la chiamava “sorella nostra morte corporale”. Riconosciuto come il testo poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca l’autore, è un inno dolcissimo alla vita, in cui trova posto anche “sorella morte”, di cui il poverello non aveva certo paura. Ma noi moderni abbiamo una strizza terribile della morte e soprattutto del dolore che può accompagnarla e prepararla, al punto da chiedere per noi “il diritto di morire senza dolore”, magari con l’aiuto di un medico che ci accompagni negli attimi finali. Capovolgendo in un istante la missione del medico, da garante della vita a datore di morte, ma con il sigillo della legge.
In fondo è questo il grande, terribile quesito, a cui i giudici costituzionali italiani sono stati chiamati a rispondere a margine di una vicenda giudiziaria: il radicale Marco Cappato si è autodenunciato per aver accompagnato verso il suicidio, consumato in una struttura svizzera dedicata, Fabiano Antoniani (dj Fabo). Assecondandone così la volontà di morire. La Corte di Assise di Milano, processando l’esponente radicale, ha rivolto alla Consulta un quesito sulla coerenza con la Costituzione del nostro Codice penale, quando prevede sanzioni per aiuto e istigazione al suicidio.
I giudici hanno risposto con un’ordinanza particolare, dando un anno di tempo al Parlamento per legiferare in proposito. Il termine è scaduto ieri e dunque l’ultima parola spetta ai supremi giudici che si esprimeranno definitivamente entro la giornata di oggi. Ma l’ordinanza non si è fermata a chiedere un intervento legislativo, infatti ha manifestato l’orientamento della Corte, in sostanza favorevole a non sanzionare l’aiuto al suicidio in circostanze simili a quelle in cui si è trovato dj Fabo.
E’ proprio questo orientamento favorevole la chiave interpretativa della noncuranza e dei silenzi della politica italiana nei confronti di questa vicenda. La certezza, cioè, che la Consulta non possa smentire se stessa e che dunque la decisione, comunque controversa, sia già stata indirizzata. Perché dividersi in Parlamento e nel Paese su una questione così delicata? Meglio accettare una sentenza che taglia il nodo gordiano tra libertà individuale e accesso alla morte assistita, senza dover interrogare la propria coscienza. O peggio, addossare un nuovo lacerante quesito antropologico sulle spalle di poveri parlamentari preoccupati soprattutto di sfangare la legislatura. Perché il “primum vivere” (si colga la drammatica ironia) vale anche e soprattutto per loro.
Qualcuno griderà giustamente all’esproprio del Parlamento con la depenalizzazione del suicidio assistito, quasi costituzionalizzato. Il mondo cattolico inevitabilmente ricorderà che siamo a un passo dalla legalizzazione dell’eutanasia, attraverso il velo dell’aiuto al suicidio. Ma tutto durerà lo spazio di un mattino. Poi, avanti tutta alla conquista di nuovi diritti. Compreso quello di morire. Di cui, a guardar bene, non sappiamo davvero cosa farcene.
Ma resta l’amaro in bocca. Per l’ennesima occasione mancata da un Paese che fa fatica a costruire uno spazio pubblico di dibattito in grado di dare risposte impegnative, forse anche dolorose, a quesiti fondamentali. E quelli legati alla fine della vita certamente lo sono, grazie anche allo sviluppo impetuoso delle tecnologie, agli avanzamenti della ricerca medico-biologica, alle promesse delle neuroscienze. Ma soprattutto all’allungamento della vita umana, conquista indiscutibile della medicina e della qualità della vita. Ma il mondo moderno (già quello di domani) non può essere il Mondo Nuovo sognato dai narratori distopici. Il discrimine resta sempre il senso dell’umano che già san Francesco esaltava nel suo Cantico: il riconoscimento del valore assoluto di ogni creatura. In fondo, come potranno giudicarci le generazioni a venire, se non dalla nostra capacità di accompagnare l’umanità nelle sue debolezze? Troppo facile sbarazzarci, con qualche goccia di veleno autorizzato per legge, della vita. Meglio sempre, però, quella degli altri…
E queste parole non suonino di condanna per nessuno perché tutti abbiamo paura del dolore. Ma chi decide quale sia la soglia del dolore insopportabile? Lasciamo che a troncare la nostra vita sia la nostra attuale e momentanea percezione personale? Una sentenza, siamone certi, non darà mai risposta a queste terribili, angoscianti domande. Potrà solo mettere un timbro. Un drammatico timbro.