Il punto

Gli equilibri impossibili tra Mosca e Washington

Giuseppe De Tomaso

Nonostante la nota simpatia tra Putin e Trump, le relazioni tra Mosca e Washington somigliano sempre a quelle tra Sparta e Atene

Americani e russi non sono destinati ad andare d’accordo non foss’altro perché entrambi non vogliono e non possono rinunciare alla propria influenza in Europa. L’America sa che l’Europa resta l’avamposto dei suoi princìpi democratici nell’area più produttiva ed evoluta del globo. La Russia soffre da sempre il complesso dell’accerchiamento e non ha mai dimenticato le invasioni napoleoniche e hitleriane progettate in Europa: di conseguenza è più attenta a ciò che avviene a Ovest, nel Vecchio Continente, rispetto a ciò che succede ad Est ( Asia).
Questa condizione di né pace né guerra, tutt’al più di controllo e sospetto reciproci, tra Usa e Russia, esula dalla carta d’identità di chi dimora alla Casa Bianca e al Cremlino.

I leader delle due superpotenze potrebbero essere più amici di Achille e Patroclo, ma non riusciranno mai a portare su posizioni ireniche e fraterne gli apparati industrial-militari dei due Paesi. E siccome le strutture tecno-militari rappresentano la continuità, mentre i governanti eletti costituiscono la provvisorietà, la politica estera di Washington e Mosca sarà sempre improntata alla massima, vicendevole, diffidenza.
Matteo Salvini adopera parole di apprezzamento sia per Donald Trump sia per Vladimir Putin. Ma non può immaginare di piacere, contemporaneamente, ai due sistemi di potere di Usa e Russia. Del resto accade dai tempi di Atene e Sparta: rimanere neutrali mentre i giganti competono o combattono tra loro non è facile, anzi non è consentito. Chi ritiene di poter essere equidistante, o equivicino, fra entrambi i duellanti lo fa a suo rischio e pericolo. In certi casi, infatti, non si fanno prigionieri.

La politica è un susseguirsi di scelte. Fare gli equilibristi è un mestiere da aspiranti suicidi. Anche Aldo Moro (1916-1978) cui alcuni studiosi tuttora rimproverano il disegno di volersi smarcare da una tutela esterna per favorire il superamento del bipolarismo conflittuale tipico degli anni della Guerra Fredda, non era un neutralista doc. Anzi. Moro non era gradito all’America più conservatrice e codina, di sicuro però non aveva alcuna intenzione di mettere in discussione l’appartenenza dell’Italia al fronte occidentale.

Per un Henry Kissinger che non si prendeva con il collega intellettuale Moro, c’era il presidente, il repubblicano Richard Nixon (1913-1994), che stimava lo statista pugliese. Addirittura quest’ultimo, che non gradiva certi toni aggressivi dei democratici Usa, faceva votare repubblicano dalla comunità italiana negli States.
A differenza di altri centri di potere Usa, Nixon non era ostile al progetto di Moro teso a portare, a legittimare il Pci nel gioco democratico. In fondo Moro stava facendo sul piano interno, in Italia, ciò che lui, Nixon, aveva fatto, su scala planetaria, con la Cina grazie alla cosiddetta diplomazia del ping-pong: favorire la rottura con Mosca. Nel caso italiano, la manovra di Moro di avvicinamento al Pci doveva condurre alla democrazia dell’alternanza, il tutto, ovviamente, d’intesa con Zio Sam.
L’uscita di scena di Nixon costò a Moro la perdita dell’unico uomo forte occidentale che aveva sposato l’obiettivo di staccare i comunisti italiani dalla casa madre moscovita.
Infatti il leader dc si ritrovò all’improvviso senza sponde autorevoli negli Usa e quando le Br portarono a compimento la strage di via Fani e lo rapirono, per lui fu l’inizio del martirio, di una vera via crucis. Senza amici di peso in nessuno delle due capitali, la sorte di Moro fu segnata quasi sùbito. Nessuno, tra i Grandi, s’ impegnò sul serio per la sua liberazione. Questo per dire che anche la personalità politica più gelosa, come Moro, dell’indipendenza nazionale non poté operare ignorando la logica dei blocchi.

Il mondo è cambiato, la globalizzazione ha stemperato alcune tensioni e ne ha rilanciato altre, ma è difficile per i rappresentanti di una media o piccola nazione muoversi sul palcoscenico internazionale con la disinvoltura di una Carla Fracci.
Non sappiamo se Salvini abbia voluto forzare la mano per scompaginare il quadro politico internazionale e per ricollocare diversamente l’Italia rispetto all’Europa e agli accordi monetari. Sappiamo solo che le sfere d’influenza c’erano, ci sono e ci saranno sempre e che non sarebbe inverosimile la reazione di chi assiste a qualche repentino cambio di linea, in politica estera, nei Paesi ritenuti amici,

In fondo i princìpi che regolano i rapporti tra le nazioni non sono cambiati molto rispetto a quelli illustrati dallo storico ateniese Tucidide (460-404 avanti Cristo) ne «La Guerra del Peloponneso». E, non a caso, Tucidide resta tuttora il pensatore politico e militare più ammirato e studiato in America.
Chissà. Forse non c’è la manina o la manona di nessuna superpotenza dietro la registrazione delle imbarazzanti conversazioni moscovite con al centro il leghista Savoini. Ma un fatto appare assodato. Nonostante la nota simpatia tra Putin e Trump, le relazioni tra Mosca e Washington somigliano sempre a quelle tra Sparta e Atene che pensavano al peggio (guerra) anche quando vivevano al meglio, cioè in pace.

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