ambiente e salute
Il canto della natura nell’arte e nel tempo
Dall’alba della civiltà, l’uomo ha cercato nella natura non solo il necessario per vivere, ma anche un riflesso della propria interiorità. Nel Medioevo, il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi trasformò la contemplazione in gratitudine
Dall’alba della civiltà, l’uomo ha cercato nella natura non solo il necessario per vivere, ma anche un riflesso della propria interiorità. Nelle grotte di Lascaux le prime figure animali non erano semplici cacce dipinte, ma riti di appartenenza al mondo vivente. Con la Grecia classica, la natura divenne misura di bellezza e armonia. Nei versi di Esiodo e di Omero, l’acqua, la luce e il vento avevano voce divina. Virgilio, nelle Georgiche, celebrò la terra come maestra di virtù, scrivendo che «fortunatus qui potuit rerum cognoscere causas», felice chi ha saputo comprendere le cause delle cose.
Nel Medioevo, il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi trasformò la contemplazione in gratitudine. Con il Rinascimento, la natura tornò ad essere rivelazione di perfezione. Leonardo da Vinci la studiò come un corpo che respira, scrivendo che «la natura è piena d’infinite ragioni che non furon mai in isperienza». Botticelli, con la Primavera, dipinse la rinascita come danza di fiori e divinità. Nel Romanticismo, la natura divenne sentimento e specchio dell’anima.
Caspar David Friedrich mostrò il viandante sospeso davanti all’immensità del cielo, piccolo ma infinito nello sguardo. In poesia, William Wordsworth scrisse «Una sensazione di qualcosa di più profondo, la presenza che pervade tutte le cose». Coleridge, in The Rime of the Ancient Mariner, rivelò la redenzione che nasce dall’amore per ogni creatura. Goethe intuì, nella metamorfosi delle piante, il segreto della vita che muta senza mai morire. Dall’altra parte dell’oceano, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau fondarono il trascendentalismo: la foresta come cattedrale e il silenzio come maestria. «Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza», scrisse Thoreau in Walden, «per vedere se non potevo imparare ciò che la vita aveva da insegnarmi». Walt Whitman, con Foglie d’erba, unì corpo e cosmo in un unico canto «Io credo in te, mia anima, e in ogni foglia d’erba che parla di immortalità».
Nel passaggio al Novecento, la pittura trasformò la luce in linguaggio. Monet catturò il respiro delle ore nelle sue ninfee; Van Gogh scrisse in una lettera che «nella notte c’è più vita che nel giorno» e fece dei campi di grano un palpito dell’universo. Cézanne meditò per anni sulla montagna Sainte- Victoire come se fosse una preghiera. Georgia O’Keeffe trovò nei fiori desertici l’anima segreta del mondo; Ansel Adams rese sacra la fotografia di una montagna. La letteratura divenne introspezione e nostalgia. Hermann Hesse, in Siddharta, vide nel fiume la voce del tempo: «Il fiume è dappertutto allo stesso tempo». Albert Camus, in Noces, scrisse «Ho compreso che c’era in me una gioia, un amore profondo per questo mondo, che nessuna disperazione può cancellare».
Gabriele D’Annunzio, nella Pioggia nel pineto, fece della fusione con la natura un’esperienza sensoriale assoluta: «Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane». La poesia italiana ritrovò così la voce dell’acqua, dell’ombra e del silenzio. Più tardi, Rachel Carson con Primavera silenziosa unì scienza e poesia, risvegliando la coscienza ecologica del mondo. Mary Oliver scrisse «Tu non devi essere buona, devi solo lasciare che l’animale dolce del tuo corpo ami ciò che ama». Gary Snyder e Wendell Berry celebrarono la sobrietà e il ritorno alla terra come forma di resistenza spirituale. In Italia, Mario Rigoni Stern raccontò la montagna come madre severa e affettuosa, Italo Calvino con Il barone rampante fece della fuga sugli alberi un simbolo di libertà, e Paolo Cognetti, ne Le otto montagne, scrisse che «ogni uomo ha la sua montagna, che lo aspetta».
Nel linguaggio visivo contemporaneo, la natura è tornata presenza viva. Giuseppe Penone scava gli alberi per ritrovare l’uomo nascosto nel legno, Andy Goldsworthy lascia che vento e tempo completino le sue opere di ghiaccio e foglie, Michelangelo Pistoletto disegna nel Terzo Paradiso un segno di riconciliazione fra natura, arte e tecnologia. Olafur Eliasson riporta il sole dentro i musei per ricordare che la luce è un’esperienza condivisa. La musica, da sempre, accompagna questo viaggio. Beethoven compose la Pastorale come «più espressione di sentimento che pittura», Debussy trasformò il mare in suono, e nei canti popolari il ritmo delle stagioni divenne melodia del quotidiano. Bob Dylan cantò «The answer, my friend, is blowin’ in the wind», Joni Mitchell ammonì «They paved paradise and put up a parking lot». Cat Stevens, in Morning Has Broken, ringraziò il mondo con una preghiera semplice: «Praise for them, springing fresh from the Word». John Denver intonò Take Me Home, Country Roads come ritorno alle radici dell’anima. In Italia, Lucio Battisti sognò libertà «tra un fiore colto e l’altro donato», Franco Battiato inseguì il centro di gravità permanente tra cielo e terra, Francesco De Gregori e Guccini cantarono la terra come custode della memoria. Oggi, nell’arte, nella musica e nella poesia, l’ambiente non è più solo sfondo ma messaggio. Le installazioni di muschio nei musei, i concerti per gli alberi, le fotografie dei ghiacciai che si sciolgono parlano la lingua di un mondo che chiede ascolto. Come scrisse Emily Dickinson, «La natura è ciò che vediamo, il colline, il tramonto, il ronzio dell’ape, ma anche l’anima». È forse questa la lezione che ogni artista, in ogni tempo, ha cercato di donarci, che la natura non è fuori di noi, ma è la nostra parte più viva, quella che, anche nel silenzio, continua a cantare.