Ambiente e Salute

Quella generazione di «eco-preoccupati»

Alessandro Miani

Negli ultimi anni, le giovani generazioni hanno sviluppato una nuova forma di ansia: l’eco-ansia. E no, non si tratta di un’inquietudine da esame o da interrogazione a sorpresa, ma di una preoccupazione costante e cronica per il destino del nostro povero pianeta

Negli ultimi anni, le giovani generazioni hanno sviluppato una nuova forma di ansia: l’eco-ansia. E no, non si tratta di un’inquietudine da esame o da interrogazione a sorpresa, ma di una preoccupazione costante e cronica per il destino del nostro povero pianeta. È come se la Terra fosse alle prese con il suo esame finale di sostenibilità, e i giovani si sentissero davanti a una commissione che non sembra particolarmente incline a promuoverla. Insomma, il futuro del pianeta sembra meno sicuro di una password generata automaticamente.

Secondo un sondaggio di Too Good To Go, in collaborazione con ISIC Italia (la Carta d’Identità Internazionale degli Studenti), il 76% degli studenti italiani è preoccupato per la salute della Terra. Un dato che, in un certo senso, fa riflettere: i giovani non solo sono consapevoli dei problemi ambientali, ma li vivono come una vera e propria angoscia esistenziale, a volte più di un compito in classe. Questi numeri, ormai parte integrante del dibattito quotidiano, sono più discussi di quanto lo sia, ad esempio, l’aumento del costo della vita. Ma cosa alimenta questa eco-ansia? Oltre a quelle immagini emozionanti, nel senso più drammatico del termine, di orsi polari alla deriva su iceberg sempre più piccoli e a un aumento dei fenomeni meteorologici estremi, c’è anche una sensazione diffusa di impotenza: come se, nonostante tutti i tentativi, le azioni per contrastare il cambiamento climatico siano sempre troppo poche, troppo lente.

Un po’ come cercare di spegnere un incendio con un secchio d’acqua. L’American Psychological Association definisce l’eco-ansia come una paura cronica per il destino dell’ambiente, e per molti giovani significa sentirsi spettatori impotenti di una crisi che richiederebbe risposte immediate e incisive. Risposte che non si vedono all’orizzonte, o almeno non abbastanza chiare. In questo scenario, la Psicologia Ambientale potrebbe venirci in soccorso, non solo per analizzare il problema, ma per proporre soluzioni. In altre parole, non solo per dirci che il nostro pianeta sta andando a rotoli, ma anche per suggerirci un manuale d’istruzioni per sopravvivere. La Psicologia Ambientale studia il modo in cui l’ambiente, sia fisico che sociale, influisce sul nostro comportamento, aiutandoci a reagire alle sfide ambientali in modo più costruttivo. Una delle sue proposte è il concetto di «autoefficacia», ossia la convinzione che le proprie azioni possano fare la differenza. E qui arriviamo al punto cruciale: se vediamo che i nostri piccoli gesti quotidiani, come ridurre lo spreco di cibo, limitare l’uso di plastica o partecipare a progetti locali di sostenibilità, portano a risultati concreti, l’ansia si riduce. La sensazione di non poter fare nulla si trasforma in una leggera, ma preziosa, rassicurazione. E non è solo una questione di «piccoli passi». Uno studio condotto dall’Università della California ha evidenziato che quando le persone vedono l’impatto diretto delle proprie scelte – per esempio, ridurre i consumi energetici o piantare un albero – la loro ansia per il futuro diminuisce significativamente. La scienza ci suggerisce anche di fare attenzione al sovraccarico informativo: troppe notizie allarmistiche senza proposte di soluzioni possono aumentare il senso di frustrazione e impotenza. Un po’ come se ci raccontassero per giorni che la fine del mondo è vicina, senza darci nemmeno un piccolo suggerimento su come prepararci. La chiave, quindi, è l’informazione equilibrata, che non promuova il fatalismo ma stimoli un atteggiamento proattivo. In questo contesto, un altro aspetto fondamentale è la dimensione sociale. Coinvolgere le persone in azioni collettive può ridurre il senso di isolamento e promuovere l’adozione di comportamenti sostenibili.

Se non siamo soli nell’affrontare la crisi climatica, diventa molto più facile passare all’azione. In effetti, una ricerca dell’Università di Yale ha dimostrato che la partecipazione a gruppi ecologici o movimenti sociali aumenta la sensazione di empowerment, riducendo il senso di impotenza individuale. D’altra parte, non è tutto nero. Se da un lato l’eco-ansia rappresenta una reazione naturale e comprensibile alla minaccia del cambiamento climatico, dall’altro è interessante vedere come molti giovani stiano trasformando questa preoccupazione in attivismo concreto. Il movimento Fridays for Future è solo uno degli esempi più noti di come l’attivismo giovanile stia influenzando la politica ambientale. Ma ci sono anche tante piccole iniziative locali, come i progetti di riforestazione urbana, che stanno facendo la loro parte per cambiare il mondo a livello di comunità. Questi gesti, per quanto piccoli, fanno davvero la differenza. E qui entra in gioco la comunicazione. I media, da sempre capaci di alimentare paure collettive, hanno anche il potere di orientare il dibattito verso soluzioni praticabili, raccontando storie di successo e innovazioni. Una informazione che non si limiti a mostrare la catastrofe imminente, ma che offra anche uno spunto positivo per chi ha voglia di agire. In fondo, non possiamo cambiare il mondo con il solo pessimismo, no? La sfida non è solo ridurre l’eco-ansia, ma trasformarla in un motore di cambiamento. Se ogni piccolo gesto, ogni scelta consapevole e ogni azione condivisa può fare la differenza, forse è il caso di rivedere la nostra routine giornaliera e scoprire quante cose possiamo fare, anche solo cambiando una piccola abitudine. Perché, in fin dei conti, un mondo più verde non è solo una speranza, è qualcosa che possiamo davvero costruire, insieme.

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