Emigrare

C'è un pò di Lucania in tutto il mondo

Renato Cantore

Generazione dopo generazione i paesi appollaiati sulle rocce crescevano in altre parti

«È bello essere a casa!»

Sono due del pomeriggio di un rovente 24 luglio del 2014 nella piazza di Grassano affollata e festante.

Bill De Blasio, da pochi mesi sindaco di New York, è arrivato fin qui facendo a ritroso il viaggio della nonna, Anna Briganti, che partì nel 1903 da questo piccolo centro della Basilicata, a poor hill town in the middle of nowhwere, una povera città di collina in mezzo al nulla, per inseguire il suo sogno americano.

Un sogno che ora in questa piazza assume l’aspetto di un uomo con la faccia da bravo ragazzo su un fisico imponente di un metro e 94, eletto trionfalmente sindaco di una delle più importanti città del mondo con un programma di lotta alla povertà e alle ingiustizie sociali, e che rivendica con orgoglio l’origine grassanese della sua famiglia.

De Blasio non sfugge all’antica orgogliosa rivendicazione di generazioni di migranti: cittadini del mondo sì, ma con la testa e il cuore ben piantati nelle radici, nel “paese”. E dunque il primo cittadino di New York può essere a buona ragione indicato come il testimonial di quei lucani altrove abituati a vivere con la stessa intensità la piena cittadinanza del paese che li ospita e l’orgogliosa identità delle radici.

Una condizione che ha fatto sì che si possano trovare tracce di questa piccola regione del sud Italia praticamente in ogni parte del mondo.

Non tutti sanno, ad esempio, che nella catena montuosa di Saint Elias Mountains, la seconda al mondo dopo la Cordigliera delle Ande, ai confini tra il Canada e l’Alaska, a 5.226 metri di altezza, svetta la cima di Mount Lucania. Il primo uomo a individuarlo, e imporgli questo nome, fu Luigi Amedeo di Savoia, il duca degli Abruzzi. Era arrivato in Canada, alla testa di una spedizione di ardimentosi alpinisti, attraversando l’oceano a bordo di una motonave di Sua Maestà che si chiamava Lucania.

Qualche migliaio di chilometri a sud, nel cuore di Manhattan, al numero 235 West della 71.ma strada, c’è palazzo Lucania, un elegante edificio di otto piani destinato ad appartamenti per la middle-class costruito nel 1910 da Anthony Campagna, un avvocato di Castelmezzano che è diventato uno dei più importanti imprenditori edili di New York City.

A Genk, una delle capitali del distretto minerario del Limburgo, in Belgio, ancora oggi i prodotti tipici della Basilicata, compresi pane e latticini, arrivano freschi ogni settimana.

A Berlino una commissione della Regione Basilicata arrivata all’inizio degli anni duemila per censire i ristoranti che proponevano cucina tipica lucana, ne arrivò a contare il numero incredibile di ventitré.

A Buenos Aires, certamente la maggiore città “lucana” nel mondo, sono invece ben ventisei le associazioni che si richiamano alla Basilicata: tante da aver sentito l’esigenza di riunirsi in una federazione.

A Iquique, una modesta cittadina nel nord del Cile, ai piedi del polveroso deserto dell’Atacama, dove piove ogni trecento anni, una delle piazze principali si chiama Plaza Oppido Lucano.

A Toronto, al numero 622 di College Street, nell’affollato atrio del palazzo della Chin, la più grande emittente multiculturale del nord America, ad accogliere le centinaia di dipendenti c’è una gigantografia con la faccia sorridente del suo fondatore, Johnny Lombardi, al secolo Giovanni Barbalinardo da Pisticci.

E a Cape Canaveral, Florida, sono ancora tanti i tecnici della Nasa che ricordano con simpatia e rispetto la bella faccia da contadino lucano di Rocco Petrone, figlio di emigranti di Sasso di Castalda, l’uomo che dette il via nel luglio del 1969 alla straordinaria missione dell’Apollo 11 per lo sbarco dei primi uomini sulla luna.

Potremmo continuare a lungo con le testimonianze, i ricordi, la storia e le storie della grande avventura di un popolo che la miseria, il bisogno, le circostanze, la voglia di progredire, talvolta anche l’amore e il desiderio di avventura, hanno portato in ogni angolo del pianeta

Abituati a non perdersi per le strade del mondo fin dal settecento, quando i musicanti girovaghi di Viggiano attraversavano l’Europa e cominciavano a imbarcarsi per le terre d’oltre oceano, dovunque i lucani hanno finito col mettere le radici, silenziosi ma intraprendenti. 

E così, decennio dopo decennio, generazione dopo generazione, i paesi aggrappati alle rocce dell’Appennino che si spopolavano in Italia crescevano in qualche altra parte del mondo. Si può dire addirittura che è proprio in questi nuovi insediamenti che la cultura, le tradizioni, le abitudini, i valori fondanti di questa terra antichissima si siano conservati con incredibile rigore.

Birds of passage, uccelli di passo: così li chiamavano con disprezzo i funzionari di Ellis Island. Oggi questi uccelli di passo hanno riempito il mondo di nidi. Alcuni grandi e confortevoli, altri un po’ più piccoli, ma tutti dignitosi e rispettabili. E sono questi “nidi” che, nell’era della globalizzazione, ci restituiscono i contorni tutti ancora da scoprire di una regione ormai senza confini ma non senza identità.

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