SIMBOLI
In Iran «volano» i turbanti degli ayatollah
La nuova forma di protesta dei giovani attacca direttamente uno degli elementi del potere teocratico. Un salto di qualità che però potrebbe non essere capito dalle masse
BARI - Da qualche giorno circolano sui social filmati arrivati clandestinamente dall’Iran. Mostrano ragazzi e ragazze che fanno volare dalla testa i turbanti delle personalità religiose. Documentano – si precisa nei video – una nuova forma di protesta dopo quella del taglio dei capelli da parte delle donne, soprattutto giovani studentesse. Le immagini ripropongono scene molto simili: c’è un giovane che segue per qualche metro un religioso e poi all’improvviso prende a correre e colpisce con uno scappellotto il suo turbante facendolo volare. Il colpo a sorpresa lascia interdette le vittime che non possono far altro che recuperare il copricapo mentre lo «scappellatore» è già sparito.
Non si tratta di una «zingarata» tipo «Amici miei», il vecchio film di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi & Company. Siamo invece di fronte a un salto di qualità della protesta giovanile. Non perché vengono presi di mira esponenti religiosi, ma perché i giovani attaccano uno dei simboli più potenti e radicati dei detentori del potere in Iran. La fase precedente della protesta, il taglio dei capelli, per intenderci, era solo un gesto di sfida al potere, una manifestazione di libertà, una ricerca di indipendenza.
Ma non metteva direttamente in discussione il potere religioso che in Iran sovrasta e origina qualsiasi altra forma di potere. Il turbante degli ayatollah e degli altri religiosi sciiti ha una foggia diversa dagli altri copricapo analoghi, a cominciare da quello indiano ma anche degli stessi islamici sunniti o delle popolazioni arabe. I colori ammessi sono solo due: il nero per i teologi e religiosi discendenti del Profeta; il bianco per tutte le altre personalità, compresi gli «ulema», i «dottori della legge», sia essa civile che religiosa.
È chiaro quindi che in Iran il turbante non è solo un copricapo, bensì è il simbolo del potere che discende dalla religione. Per questo la protesta rappresenta un salto di qualità: attaccare i simboli significa attaccare – seppure in maniera non violenta – direttamente il potere. Nel caso specifico poi, il simbolo è ancora più importante poiché rappresenta anche la fonte sovrannaturale del potere politico. Volendo fare un paragone è come se in ambito cattolico si facesse saltare la mitria dalla testa di un vescovo. Anche se bisogna considerare che in questo caso siamo di fronte a un simbolo che rimanda al solo credo religioso e che è utilizzato solo durante le funzioni religiose, mentre nel caso iraniano si aggiunge anche la valenza politica: non a caso il turbante è indossato durante tutta la giornata, proprio a indicare l’indissolubile legame fra fede religiosa e vita politica e sociale. Ed è proprio quest’ultimo, con ogni probabilità, il vero obiettivo della protesta.
Quando l’attacco si rivolge ai simboli vuol dire che siamo di fronte a una protesta che sta mutando segno e obiettivi. Perché il simbolo ha in sé una forza autonoma, in quanto capace di evocare qualcosa che va al di là dell’esperienza materiale. Nell’antica Grecia il simbolo era infatti anche una sorta di documento di riconoscimento: erano le due parti di uno stesso oggetto spaccato. Servivano a riconoscersi e farsi riconoscere, ma anche – per esempio – a dimostrare il legame unico e assoluto che poteva esistere fra due persone o due famiglie. Sulla scia di questa etimologia, dopo il Concilio di Nicea, il Credo che si recita durante la messa cattolica, divenne il Simbolo dei cristiani, l’elemento in cui riconoscevano la loro fede.
Nell’esperienza ci sono anche simboli non religiosi come per esempio il leone che rappresenta la forza, il cane la fedeltà, la colomba la pace. Oppure in letteratura Ulisse è il simbolo dell’astuzia. La materialità della nostra vita, però, ci sta allontanando dai simboli e ci appiattisce sempre più sull’uso di «segni». I segni non hanno una valenza trascendente: sono immagini, il più delle volte stilizzate o convenzionali, che servono a indicare delle funzioni o dei comportamenti. Ne sono esempio i segnali stradali o le stesse emoticon o, ancora, tutti i disegnini che troviamo sulle apparecchiature elettroniche che indicano il tasto di accensione, come andare avanti o indietro e così via.
Le stesse lettere dell’alfabeto sono segni che indicano suoni, la loro combinazione porta a formare le parole con cui poi indichiamo concetti e oggetti. Ora non sappiamo se e quanto si allargherà questa sofisticata forma di contestazione dei giovani iraniani. Di certo il regime degli ayatollah non starà a guardare, poiché comprende bene quanto sia grave un attacco così plateale a un simbolo teocratico.
La sofisticata arma scelta dai contestatori potrebbe però non essere capita e quindi seguita dagli altri giovani né dal resto della popolazione. La protesta in strada, il taglio dei capelli, lo sciopero nelle fabbriche o nelle scuole sono forme più immediate e istintive per contestare il regime che non rimandano ad alcun contenuto religioso. Colpiscono ma, come dire? solo in superficie. Vedremo se la diffusione dei video online comunque farà allargare la protesta contro un regime che, al di là dei simboli, resta fra i più oppressivi e retrogradi del pianeta.