Roma, Sud

Il borsone pesante degli expat pugliesi

Liborio Conca

Oltre alla tradizionale valigia e alla borsa col pc portatile, il ragazzo, o la ragazza, lo studente o la tirocinante non mancheranno di un borsone extra, generalmente d’aspetto gonfio, piuttosto pesante, e per di più da assicurare in una posizione stabile durante il tragitto

Quando anche il rumore degli ultimi botti esplosi per le feste invernali sarà infine smorzato e poi spento e l’esercito degli expat pugliesi si preparerà al rientro verso le destinazioni più svariate – Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, e via discorrendo – ebbene, il loro viaggio non sarà solitario.
Oltre alla tradizionale valigia e alla borsa col pc portatile, il ragazzo, o la ragazza, lo studente o la tirocinante non mancheranno di un borsone extra, generalmente d’aspetto gonfio, piuttosto pesante, e per di più da assicurare in una posizione stabile durante il tragitto. Che sia in treno, in autobus, o in macchina, ecco, quel borsone lì è bene che sia fissato a terra, in modo che non possa ribaltarsi, con conseguenze assai sciagurate. Il perché è presto detto: trattasi di quello che è tecnicamente il famigerato pacco da giù, vale a dire il concentrato mobile di pietanze locali, più o meno homemade, da portarsi appresso come provviste per il lungo inverno fuorisede.
Qui, in realtà, potrebbe aprirsi una discussione per puristi: è definibile pacco da giù anche il borsone che materialmente ti porti appresso con i bagagli, durante il viaggio; oppure va considerato pacco da giù solo e soltanto la scatola imballata che piomberà presso il tuo domicilio extra-pugliese per mezzo di corriere, posta o traporto eccezionale (viaggiatori occasionali, parenti in trasferta, autisti di bus privati)? Al netto del quesito, ormai esiste una vera e propria letteratura/filmografia in materia. Articoli, memoir, canzoni semiserie, ovviamente una miriade di video per YouTube o TikTok, del genere Come Preparare Al Meglio Il Pacco Da Giù, featuring la nonna o la mamma – perché questo è affare squisitamente matriarcale; il padre sarà al massimo delegato alla spedizione in posta, o all’incastro nel bagagliaio.
Giunto a destinazione, il pacco svolgerà diverse funzioni. Ovviamente di sostentamento, soprattutto per i meno avvezzi ai fornelli. I più scaltri sapranno come gestire sapientemente le provviste, centellinando, congelando, attingendo con parsimonia al malloppo. Sociali: una bella cena dal sapore etnico, per amici stranieri, o chissà, a scopi seduttivi; o ancora un pensiero gastronomico per fare bella figura con i colleghi, col capo, con la vicina. E poi, naturalmente, il sentimento. Perché saranno pure provviste, ma lì dentro, sotto una dura scorza di imballaggi spesso non propriamente ecosostenibili c’è, appunto, del sentimento: l’aria di casa, i sapori dell’infanzia, l’orgoglio meridionalista da sfoggiare al centro-nord con le popolazioni autoctone al grido di battaglia «voi un pane così ve lo sognate», «assaggia quest’olio qui e non vorrai tornare più a prenderlo al supermercato», eccetera eccetera.
Durante l’università, naturalmente, anche io ho giovato di questo sapiente stratagemma, nella forma di un amico di famiglia che periodicamente era in trasferta a Roma. L’appuntamento era nei dintorni di Santa Maria Maggiore. La basilica, enorme, incombeva nella sera; arrivavo a mani vuote e rientravo con due borsoni belli carichi. La cosa non deve mai aver destato troppi sospetti, visto che non mi hanno mai fermato: fatto sta che a distanza di anni ripassando per quella piazza non posso fare a meno di pensare alla funzione speciale che ha svolto per me, per qualche tempo. Come ha raccontato il cantautore Brunori Sas, calabrese, spatriato anche lui: «Come ogni buon universitario fuori sede del sud mi facevo spedire il pacco con le vettovaglie utili per affrontare le battaglie da studente emigrato. Quel pacco era l’ancora di salvezza. Quando i soldi finivano e arrivava, non solo il tuo ma anche quello di qualche tuo coinquilino, era una festa perché dopo una settimana di pasta e tonno finalmente potevi mangiare qualcosa che somigliasse ad un pasto normale».

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