criminalità
Taranto e l'inchiesta «Arga», gli arrestati scelgono la via del silenzio
Dopo il blitz dei Carabinieri di Taranto coordinato dalla Dda di Lecce tre dei quattro indagati finiti in carcere giovedì scorso, epilogo dell’inchiesta «Argan»
Hanno scelto di rimanere in silenzio alle domande del gip Francesco Maccagno tre dei quattro indagati finiti in carcere nel blitz dei carabinieri di Taranto di giovedì scorso, epilogo dell’inchiesta «Argan» - della Dda di Lecce e della Procura ionica. Un’indagine che vede coinvolte 11 persone ritenute organiche o vicine al clan “Venere” di Pulsano. Accompagnati dai rispettivi difensori, gli avvocati Angelo Casa e Marino Galeandro, si sono quindi avvalsi della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di garanzia il 34enne Nicola Casucci, il 58enne Emidio Galeandro e il 69enne Gennaro Migliorini. I tre sono finiti in carcere assieme ad Anselmo Venere, 54enne vicino alla frangia “Locorotondo-Cagnazzo” della Scu, già condannato in passato per omicidio volontario, associazione a delinquere finalizzata alle estorsioni e agli incendi, oltre a una serie di reati in materia di armi e stupefacenti. Dall’inchiesta coordinata dai pm Milto De Nozza dell’Antimafia e Francesca Colaci della Procura ionica, sarebbe emersa un’associazione di stampo mafioso finalizzata alle attività estorsive e agli incendi capeggiata proprio da Venere. Del reato associativo risponde anche la compagna del 54enne che avrebbe partecipato in modo attivo alle attività illecite e la praticante di uno studio legale che si sarebbe presentata come il difensore di fiducia del 54enne, pur non essendo abilitata alla professione, solo per poter entrare e uscire dal carcere e consegnare le “missive” con cui il boss impartiva le direttrici al gruppo. Secondo l’ipotesi accusatoria il sodalizio individuava preliminarmente negli imprenditori più benestanti di Pulsano gli obiettivi da taglieggiare per poi programmare gli atti incendiari oppure i danneggiamenti dei beni del bersaglio scelto. Il tutto allo scopo di convincere le vittime ad accettare le future richieste di denaro e la “protezione” del clan.
Cartina di tornasole delle attività investigative il procedimento penale a carico di Venere: l’accusa era che avesse minacciato un imprenditore pulsanese a cui era stato imposto di licenziare il figlio di Maurizio Agosta, l’uomo che guida il clan opposto al suo e in carcere da ormai diversi anni. In quel processo, secondo la tesi accusatoria, l’imprenditore sarebbe stato avvicinato e costretto a rinunciare alla costituzione di parte civile in aula, ma anche due testimoni sarebbero stati intimoriti per indurli a dare una versione di comodo e costruirsi a tavolino il processo. Le cose però non ebbero l’esito programmato (per quei fatti il 54enne è stato infatti condannato), ma da quel momento in avanti gli inquirenti hanno puntato occhi e orecchie su di lui e sulle persone che gli ruotavano intorno. Intercettazioni telefoniche, GPS e servizi di osservazione avrebbero infine consentito di accertare le attività illecite del sodalizio. Per gli inquirenti, ma anche per gip di Lecce Anna Paola Capano, indebolire il clan rivale Agosta per controllare il territorio pulsanese compiendo così la sua ascesa criminale era uno degli obiettivi di Venere.