L'iniziativa

«Vesti il rispetto», a Taranto la moda diventa denuncia sociale contro la violenza sulle donne

Alessandro Salvatore

L’abito-manifesto «1522» del pugliese Emanuele Pepe e le testimonianze di chi combatte ogni giorno relazioni tossiche, abusi e discriminazioni

«Vesti il rispetto: la moda contro la violenza sulle donne». Oggi alle 17, alla Provincia di Taranto, si terrà l’evento ideato dalla consigliera provinciale alle pari opportunità Sabrina Pontrelli. A scuotere la discussione sarà l’esposizione dell’abito «1522». Si tratta del primo capo da sposa con sovrimpresso un numero di denuncia sociale. La creazione è firmata dal 32enne pugliese Emanuele Pepe che, nel giugno scorso, l’ha esposta al Pitti Uomo 108. Attraverso le testimonianze di chi ha saputo riscattarsi dal male come la fondatrice di «Craste» Raffaella Marangella, di chi lavora nella lotta al disagio come la Polizia di Stato che presenterà l’app di emergenza Youpol e di chi studia il futuro del Made in Italy come gli alunni dell’«Archimede» di Taranto, l’evento, spiega Pontrelli, «ribadirà l’importanza di saper riconoscere le relazioni tossiche, quale primo strumento di prevenzione agli episodi violenti».

Emanuele Pepe, «1522» è un abito simbolo di amore, speranza e nuova vita. Eppure attraverso la sua creazione diventa un grido di denuncia. Com’è nata l’esigenza di realizzare un indumento-madre per parlare di violenza di genere?

«L’idea è mossa dal fatto che trovo agghiacciante che ancora oggi, dentro una società evoluta, i casi di violenza proliferino e non diminuiscano. Attraverso la mise per eccellenza indossata da una donna felice, denuncio gli orrori degli uomini. A loro rendo noto che esiste un numero contro lo stalking e gli abusi di genere. Trovo assurdo che gli ultimi dati dicono che in Italia, dal confronto tra 2025 e 2014, emerge un aumento delle angherie subite dalle donne di 16-24 anni, che passano dal 28,4% al 37,6%. Per me una delle ragioni-chiave di questi riverberi sociali è il tabù di parlare di educazione sessuale a scuola».

Lei ha presentato «1522» a Pitti Uomo 108 (attraverso l’evento collaterale sulla moda sostenibile circolare Fashion Beyond Waste), una fiera storicamente legata al menswear. Perché, in un contesto maschile, ha voluto piazzare un capo femminile e generare un caso?

«Questo mio abito non ha nulla di convenzionale. Non è un vestito di moda, è una provocazione visiva. Niente tulle, raso, chiffon. La veste è decorata con scritte rosso sangue, fatte col rossetto. L’orlo è costellato di lucchetti. Nel contesto fiorentino non ho fatto sfilare gli abiti del mio marchio, ma ho costruito una installazione unica, evocata da gigli lasciati marcire e la canzone “Perfect Day” di Lou Reed, con l’intento di voler disturbare. Questi elementi inquietanti, simbolici, alludono alla prigionia vissuta oggigiorno da troppe donne».

Il suo brand EP5 nasce da una visione di moda sostenibile, inclusiva e anticonformista. Questo progetto è un elemento di rottura contro lo showbusiness della moda, che sembra aver smarrito sulla passerella la strada della denuncia sociale?

«A 18 anni sono andato via da Foggia, dove nelle vetrine dei negozi non trovavo abiti che rispecchiassero la mia identità. Non ho mai studiato tendenza, ma sin da piccolo tagliavo stoffe e le ricucivo, sperimentando idee, sino ad approdare al mondo del bello. Prima realizzando accessori e successivamente facendo esplodere la creatività attraverso la pittura spesso tinta su blazer. Erano gli inizi delle mie incursioni nel mondo del trendy. La molla definitiva è scoppiata nella pandemia, quando ho iniziato a generare delle storie, riutilizzando capi vintage. In quel momento lo stile aveva in me uno scopo terapeutico. Oggi lavoro a Roma, dove il mio laboratorio è un ibrido tra studio, garage ed atelier. Dunque, alla fine, non considerandomi uno stilista o un designer, ma un creativo, mi sento distante dall’industria della moda che, oggi, non riesce facilmente ad osservare ciò che accade per strada».

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