In attesa dei riti

Taranto, pellegrinaggio ai sepolcri, domani l’uscita della prima «posta» nelle chiese

Francesco Casula

Saranno oltre 70 le poste dei «perdoni» che giovedì pomeriggio a partire dalle 15 daranno vita al pellegrinaggio ai sepolcri nelle chiese della città vecchia e del borgo di Taranto

TARANTO - Saranno oltre 70 le poste dei «perdoni» che giovedì pomeriggio a partire dalle 15 daranno vita al pellegrinaggio ai sepolcri nelle chiese della città vecchia e del borgo di Taranto.

Poco più di 40 saranno quelle che varcheranno il ponte per raggiungere l’isola in cui nacque il rito forse più antico dalla tradizione pasquale ionica, in quel centro storico che nei secoli scorsi era ancora ricco di uomini e di chiese nelle quali le poste cioè le coppie di perdoni, entravano ad adorare il corpo di Cristo conservato nell’altare della reposizione. Altari allestiti oggi in modo quasi festoso, nonostante l’imminente morte di Gesù.

Eppure la tradizione tarantina continua a chiamarli «sepolcri» forse a ricordare il gesto che ogni anno a Gerusalemme avviene dopo la santa messa in «coena domini»: l’eucaristia viene infatti deposta nel santo sepolcro propri a ricordare il momento in cui quel nazareno fu adagiato nel luogo offerto da Giuseppe di Arimatea.

Spalla contro spalla, piedi scalzi e cappuccio calato sul volto, i penitenti carmelitani si avviano lentamente verso il ponte girevole. Indossano l’abito di rito. «Erano come anime appena liberate dal corpo, esseri timidi, candide forme limbali scrive nel 1959 Carlo Belli ne «La notte dei Perdoni - La velocità annullata», opera ripubblicata qualche anno fa dalla casa editrice tarantina Edita. Nel suo incontro con i Riti tarantini Belli racconta la vista dei «perdoni».

«Procedevano a tastoni, silenziosi e stupiti, per un mondo del quale pareva non conoscessero ancora la misura e la sostanza; ed io mi sentivo salire non so quale commozione al pensiero che se avessero potuto parlare avrebbero certamente emesso ingenue vocette di bambini». Le poste, una volta davanti al sagrato della chiesa da visitare, scoprono il capo posando il cappello nero con nastro blu, dietro le spalle. Continuando a «nazzicare», cioè a sospingere i passi con quel lento e incessante dondolio, i «perdune» si avvicinano al sepolcro e lì compiono un gesto antichissimo. I tarantini lo chiamano «u salamelicche».

Dopo una genuflessione, i confratelli incrociano le braccia: le mani che stringono il rosario con le medaglie e la mazza bianca del pellegrino, si avvicinano in un abbraccio fino a stringersi sulle spalle. Il suono delle mazze che battono sul pavimento e il tintinnio delle medaglie diventa l’annuncio del rituale che si sta compiendo. I bambini restano ammaliati o spaventati. Gli anziani tornano a rispolverare i ricordi, magari a quando anche loro indossavano il cappuccio e a piedi nudi si inginocchiavano a pregare di fronte ai sepolcri di tanti anni fa. Opere semplici, allestite con meno sfarzo e, in particolare nella città vecchia, spesso ospitavano i cosiddetti «piatti del paradiso». Durante i conflitti mondiali, infatti, il divieto di organizzare le processioni pasquali portò i fedeli a vivere con maggiore partecipazione l’allestimento dei sepolcri. Erano gli anni della miseria, ma ogni famiglia contribuiva a modo suo.

Tante quelle che in casa preparavano i piatti: qualche mese prima della Pasqua in un vassoio tenuto costantemente in umido e al buio venivano sistemati semi di fagioli, lenticchie o grano. I semi davano così vita a germogli che crescevano con una colorazione vicina al dorato per assenza di luce, ma quel buio permetteva non solo di rendere apparentemente preziose le umili composizioni e di abbellire il sepolcro, ma soprattutto di richiamare il mistero della Resurrezione di Gesù: un ritorno alla vita e alla luce, come il germoglio, avvenuto nel buio del sepolcro di Gerusalemme.

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